La giustizia: una virtù scomoda
di Antonio Binni
Dike – figlia mitologica di Giove e Temi – era la dea delle leggi e dei tribunali. Veniva abitualmente raffigurata con una spada e una bilancia. Immagine con la quale ancora oggi si rappresenta la giustizia. È sufficiente questo pur brevissimo accenno per rendersi perfettamente conto di un dato incontestabile, quanto dire della impossibilità di riflettere sulla giustizia senza un puntuale riferimento alla filosofia greca che, sulla giustizia, com’è noto, si è interrogata a lungo, e a fondo, offrendo contributi preziosi che, ancor oggi, costituiscono insegnamenti fondamentali per riempire di contenuto il concetto di giustizia. Parola emotiva dal significato oscuro. Tanto che diversi sono stati i tentativi di circoscriverla in una definizione comunemente accettata. Nella irripetibile Atene democratica del V sec. a. C. dominano la scena i sofisti. Ai nobili giovani che aspirano ad una carriera politica, oltre all’arte della parola necessaria per primeggiare nella agorà, costoro insegnano che la giustizia altro non è che l’imposizione del volere del più forte: tesi che, dopo moltissimi secoli, sarà ripresa, e portata fino alle sue estreme conseguenze, da un filosofo morto pazzo (… o solo finto pazzo!). Nella Repubblica, Platone, fra gli altri temi affrontati, sull’argomento giustizia, ipotizza un confronto tra Socrate e Trasimaco. Questi, coerentemente a ciò che insegna, si pronuncia a favore della tesi che ravvisa nel potere la fonte unica ed esclusiva della giustizia. Socrate, per contro, obietta al sofista che la giustizia si attua solo quando si dà priorità ai beni dell’anima. Nel contempo, denunzia la natura nociva della veduta criticata per la società e, prima ancora, per il bene del singolo (Repubblica IV, 443c – 444a; I, 353). Ancor più profonda è la definizione della giustizia proposta da Platone, sempre nella Repubblica (433b), là dove afferma che la stessa consiste in questo: che “ciascuno faccia quello che gli spetta”. Trattasi, infatti, di un profilo fondamentale in quanto collega strettamente il concetto di giustizia individuale a quello di ordine generale, posto che è compito della giustizia evitare che le parti sociali, anziché collaborare alla vita armonica e felice della comunità, lottino invece per sopraffarsi a vicenda. A Aristotele si deve la distinzione fra giustizia commutativa e giustizia distributiva. Mentre la prima (commutativa) si applica nei rapporti contrattuali nei quali ciascuno dà ciò che riceve, la seconda (distributiva) rinviene invece il suo campo d’azione nella distribuzione dei beni in base al rango, ossia al posto da ciascuno occupato nella società (Etica Nicomachea 1131 a10 – 1132 b9). I più noti criteri che discendono dalla cennata distinzione, di ordine relativo, possono essere elevati a valori assoluti. Così, “a ciascuno secondo il merito” diventa il principio cardine al quale si conforma la ideologia liberale (donde la concezione democratica della società), mentre il criterio “a ciascuno secondo il bisogno” diventa il principio al quale si ispira la ideologia comunista. È importante ricordare che, secondo lo Stagirita, c’è un senso di giustizia in ogni uomo. Questa osservazione costituirà il nucleo di ciò che verrà poi denominata “legge naturale”: un giusto e un ingiusto per natura di cui tutti hanno come una intuizione. La legge, per definizione astratta, viene imparzialmente applicata. La regola di giustizia può però finire in contrasto con l’esigenza della giustizia sostanziale. Secondo Aristotele, per essere giusti, occorre pertanto applicare la giustizia del caso concreto. Il che equivale a sostenere che l’equo è superiore al giusto perché possiede la capacità di giudicare la situazione concreta (Etica cit. 1137 b12 – 14.27 -32). Il contributo degli autori latini all’approfondimento del tema è volto soprattutto a precisare la dimensione giuridica della giustizia. Qui si impone allora di citare la celebre definizione di Ulpiano (170ca – 228 d. C.) “a ciascuno il suo diritto” (Digesto 3.1.1.1) che diviene successivamente l’incipit del Corpus Juris Civilis) di Giustiniano: definizione poi pedissequamente ripresa dalla maggior parte dei trattati medioevali. A Tommaso spetta altresì il merito di avere affrontato il punto centrale della definizione di Ulpiano, quanto dire cosa significhi il “suo diritto”, visto che, se c’è un diritto, qualcuno lo deve avere concesso. Al difficile quesito Tommaso risponde che è la creazione ad attribuire “qualcosa di proprio” (Summa contra Gentiles II, 28). Quanto dire altrimenti che, per il solo fatto di nascere, si è portatori di diritti. Dunque, il “suo diritto” è “suo” perché nasce con l’aprire gli occhi al mondo. Diritto innato che, dunque, da tutto prescinde, compreso in particolare il riconoscimento statale. Non v’è poi niuno che non veda come questa geniale soluzione abbia aperto, anzi spalancato, la porta all’argomento dei diritti naturali, il tema per certo più controverso fra i cultori della materia, siano essi giuristi o filosofi del diritto. Sempre a Tommaso si deve inoltre la configurazione della giustizia come una virtus ad alterum posto che la sua materia concerne le relazioni. La giustizia – osserva sempre Tommaso – prescrive un obbligo verso ciò che è dovuto: atto vitale indipendente dai sentimenti che si possono provare al riguardo. Per questo è una virtù scomoda perché, nell’adempimento della giustizia, c’è una dimensione di sofferenza. Specie quando è in gioco la propria vita. Comportando l’obbligo della sua osservanza, Tommaso ha inoltre cura di separare la giustizia dalla generosità, semplice complemento della prima. La giustizia – annota ancora Tommaso – investe tutta la sfera della vita attiva. Per questo la giustizia diventa il fondamento della civiltà e del vivere comune. Con un ardito salto storico, esaminiamo ora il concetto di giustizia nella concezione positivistica del diritto: concezione secondo la quale l’unico diritto realmente esistente sarebbe quello in civitate positum. Il che, com’è lapalissiano, è in netta antitesi alla dottrina del “diritto naturale” nell’ottica positivistica assolutamente inesistente. Pure perché in natura è inesistente il soggetto chiamato a irrogare la sanzione e nel caso che il comando venga trasgredito. Secondo i positivisti, il concetto di giustizia si risolve così in quello della puntuale conformità alla legge. In quest’ottica, infatti, è giusto solo ciò che la legge dichiara come tale. Il criterio supremo finisce perciò per divenire, e al postutto essere, la correttezza procedurale. Non v’è tuttavia niuno che non veda come un siffatto punto di vista finisca per esporre a gravi aporie, che rendono estremamente problematico, e soprattutto pericoloso, il vivere comune. Sull’altare della legge vengono infatti sacrificati non solo la verità, ma pure l’umanità dei destinatari del comando. Com’è avvenuto, ad esempio, con le infami leggi razziali italiane del 1938 che, di quella veduta, sono state le figlie dirette e consequenziali. Da questa sommaria e per certo lacunosa presentazione che ha avuto ad oggetto il retroterra teorico del concetto di giustizia dal profilo storico, è emerso, con chiarezza, che la sua nozione è connotata da diversi aspetti per essere collegata a quella di verità, di uguaglianza e di ordine. Di verità, perché non v’è giustizia senza verità. Di uguaglianza, perché senza uguaglianza non può esservi giustizia. Di ordine, perché la disuguaglianza crea disordine, quando, invece, proprio dikaiosynē consente di assegnare all’uomo e alle cose il loro posto “giusto” nell’armonia del creato. Sembra a noi sommessamente che, se si vuole, come pur si deve, ancorarsi ad un pilastro, tutti codesti profili debbono allora essere ricondotti ad unità, ad un principio che non può che essere metafisico. Per il religioso sarà la giustizia propria del suo Dio. Per il laico sarà quella dell’uomo viator e della sua umanità, che riconosce all’uomo la titolarità di diritti, situazione che precede – e appunto perciò fonda – l’ambito giuridico. L’aspetto positivo di questa veduta è che fa salva quella legge naturale che consente di discernere ciò che è bene e giusto da ciò che non lo è, legge iscritta nella coscienza di ogni essere umano come ci ricorda la vicenda di Antigone e, con essa, l’esigenza di riconoscere la legge non scritta che tanto infiammava l’anima di Hegel. In particolare, sono così salvi i diritti umani, nucleo di quello jus che la giustizia è tenuta a garantire in ogni luogo e in ogni tempo. Il mero ambito procedurale non è, infatti, sufficiente a elevare a “valori ultimi” quei valori che non si giustificano, ma si assumono. Nel contempo, rimane escluso dalla giustizia che possa essere la maggioranza a stabilire che gli uomini sono tutti liberi e uguali. Così come non sarà mai giusta la maggioranza che potrà stabilire il contrario. Tutto questo può rinvenire il suo fondamento solo in un principio incondizionato. Assoluto. Il solo che può tutto fondare. A diversamente argomentare non resterebbe infatti più nulla, a parte la volontà dell’uomo e i suoi desideri protetti dallo Stato. Nell’epoca contemporanea, la trattazione dell’argomento giustizia non di rado risulta carente nella visione d’insieme, irrinunciabile invece per chi avverte la necessità logica di ancorarsi ad un terreno sicuro. Ne discende conclusivamente che, come si impone di ripetere, solo il ricorso ad un principio metafisico, proprio perché irriducibile alla puntuale situazione storica, può garantire la giustizia “vera” e, con essa, la dignità umana di fronte agli interessi di parte o alle brutali contrapposizioni etniche, doloroso presente. L’amore per la giustizia e la sua pratica costante e ininterrotta fanno parte dello statuto costitutivo del massone che, con la sua vita retta, ne fa irrinunciabile quotidiana testimonianza. Anche se spesso risulta emarginato perché la sua voce è soffocata da mille altre che la contraddicono. Testimonianza invero sempre sgradita perché – correttamente! – letta come un severo giudizio di ingiustizia e di oppressione che sovente regna purtroppo sulla storia. Quando poi non si trasforma addirittura in sopruso personale, privazione della libertà e perfino della vita nei casi più gravi. L’ottava ultima beatitudine del Vangelo secondo Matteo può allora ben dirsi appropriata anche a chi segue la via muratoria.