Episodi e temi della Massoneria risorgimentale. La loggia pisana “Azione e Fede”
di Aristide Luca Ceccanti
Le colonne della R.·.L.·. “Azione e Fede” all’Oriente di Pisa furono elevate verso il 1834, dunque in piena Restaurazione, sotto gli auspìci del Grand Orient de France. Era composta soprattutto da negozianti, medici, impiegati pubblici, studenti. Molti suoi membri appartenevano alla comunità israelitica, da secoli profondamente integrata nella città di Pisa. La “Azione e Fede” fu una delle primissime Logge ad integrare il Grande Oriente Italiano di Torino, ma fu allo stesso tempo fra le più riottose ad accettare l’indirizzo “governativo” che si voleva attribuire alla nuova Obbedienza: tanto riottosa da votare contro la prima elezione di Costantino Nigra a Gran Maestro e – una volta eletto – da considerarne nulla l’elezione per l’irregolarità del collegio elettorale. Accettò invece l’elezione di Filippo Cordova, nonostante la sua preferenza fosse per l’altro candidato, Giuseppe Garibaldi. Di Garibaldi, dei mazziniani, e in generale di tutti coloro che potevano creare agitazione, il governo neo-nazionale aveva, o simulava di avere, un grande timore. Troppo spesso l’agiografia risorgimentale ha tenuto in ombra la feroce dialettica che si sviluppò tra le due componenti principali del Risorgimento: quella democratica e quella moderata. La componente moderata considerava l’unificazione nazionale come una necessità al fine di conservare l’ordine esistente, in modo che “la democrazia” non trovasse spazio per le sue istanze rivoluzionarie di fondo. La componente democratica considerava l’unità di tutte le forze patriottiche una necessità, ma al suo interno andavano delineandosi istanze più prettamente sociali. Quando le forze moderate abbandonarono al loro destino i reazionari, incapaci di adattarsi a quel tanto di novità necessario per impedire il precipitare delle cose, e si allearono ai democratici, mantennero la loro avversione di fondo per tutto ciò che questi ultimi rappresentavano: e non mancarono, questa avversione, di manifestarla sempre e comunque. Nell’agosto 1862, dopo i fatti di Aspromonte, il governo Rattazzi ordinava la sorveglianza più stretta della stampa e delle associazioni democratiche e repubblicane. La società Democratica Emancipatrice pisana fu sciolta. La notte del 2 settembre 1862 la polizia fece irruzione nei locali dove si riuniva la “Azione e Fede” ed arrestò tutti i presenti, per poter procedere il giorno successivo, con più calma, alla perquisizione. Lascio la parola al questurino verbalizzante.
“Al Sig. Senator Prefetto di Pisa
Eccellenza,
Alle ore 10 della sera decorsa, pervenutami notizia che nello stabile di n.528 situato in via San Martino, trovavansi riuniti per scopo politico varij individui appartenenti alla già disciolta società Democratica emancipatrice, e tosto ordinai alle guardie di P.S. di seguirmi, e mi recai in quel luogo ove infatti al 3o piano dello stabile sopra indicato, dopo avere picchiato a una porta che rimane a mezza scala, fui introdotto in una sala ove seduti trovavansi n.20 individui, ai quali, domandato lo scopo per cui trovavansi riuniti, da prima non risposero, e poi dissero << per dare lettura ai giornali >>. Fu allora che, presi i nomi dei seguenti 20 individui (omissis); ordinai ad alcune guardie che rimanessero nella sala ed io ritiratomi in una stanza attigua chiamatili ad uno ad uno li costituì in esame e presi le loro dichiarazioni che nel complesso mi fecero intendere essere quella una Loggia Massonica, non avere uno scopo politico ed interessarsi di atti di beneficenza e di umanità (sic!).
Nonostante tali dichiarazioni, attesa la circostanza di aver appartenuto la maggior parte degli adunati alla Società emancipatrice testè disciolta (pensai di) procedere prima di rilasciarli in libertà alla perquisizione del locale e delle carte che vi si trovavano onde conoscere se trattavansi veramente affari di Massoneria o piuttosto politici, siccome ne ingenerava il sospetto la presenza di individui ben cogniti per Mazinianesimo. Ma attesa l’ora inoltratissima della notte e di non portare [illeggibile] senza disagio ed anche danno del pubblico servizio inquantoché tutte le guardie di P.S. Trovavansi meco e non perlustravano la città, ordinai l’accompagnatura di tutti e 20, alle Carceri Pretorili per rimanervi in sequestro fino a perquisizione terminata e intanto chiuso quel locale e consegnate legate e sigillate in un solo mazzo le chiavi ad uno degli adunati sospesa l’operazione fino alle ore 9 di questa mattina in cui presenti Cesare Boccata e Prats Francesco, consegnatari delle chiavi, è stata eseguita da me accompagnato dal maresciallo e due guardie di P.S. Una diligentissima perquisizione in tutto il quartiere tenuto in affitto dalla Loggia massonica ed ivi tranne molte carte e simboli proprij della Massoneria nulla ho ritrovato per giustificare che quella comitiva ivi fosse riunita siccome veniva rappresentata per scopo politico; ed è stato a seguito di tutto ciò che ho creduto di dovere immediatamente rilasciare siccome ho rilasciato mandato di scarcerazione per i sequestrati fin dalle 2 ant.
Di tanto mi sono creduto in debito di informarla.
Il delegato di P.S.”
Lo scandalo di questa perquisizione fu grande. Originata da una lettera anonima, e dalla convinzione di molti che Massoneria fosse sinonimo di rivoluzione giacobina, ebbe per certi versi l’effetto contrario. Nella sua lettera al Prefetto il delegato cerca di giustificarsi, affermando insieme alla irreprensibilità del suo comportamento la verificata innocenza dei presenti da ogni accusa di cospirazione politica. Il fatto è che, fra i “sequestrati” nelle Carceri Pretorili, oltre a noti democratici, c’erano anche dei moderati governativi, alcuni dei quali addirittura membri della Giunta Provinciale. Nel fascicolo dell’Archivio di Stato di Pisa che documenta l’episodio sono presenti i verbali di interrogatorio: tutti i “sequestrati” concordano nel dichiarare che la riunione in corso è quella di una Loggia massonica, che la Loggia ha finalità filantropiche e di beneficenza, che le armi e gli arredi – si parla in particolare di un inginocchiatoio – sono simboli propri della Massoneria. Tutti dichiarano che la riunione non aveva carattere politico e che le somme di denaro raccolte servivano ad aiutare i bisognosi. E a questo punto il Massone contemporaneo non può non trarre alcune considerazioni. In primo luogo: il locale di riunione non è immediatamente riconoscibile come un Tempio. E nell’appartamento occupato dalla loggia – perché nel verbale si parla esplicitamente di più stanze – un Tempio permanente non c’è. Nella lettera anonima di denuncia – che non ho trascritto – si legge che in quell’appartamento ci si riunisce “ogni due sere”: una frequenza di lavori assolutamente insolita per una loggia che si dedica a lavori rituali. La risposta che i nostri Fratelli danno a caldo al Delegato di P.S. è rivelatrice: “davamo lettura ai giornali”. La lettura (oltretutto, in comune) dei giornali era allora vista come una attività eminentemente politica, che al tempo della Restaurazione era senz’altro repressa, e che neppure i nuovi governi vedevano di buon occhio, anche se avevano difficoltà a vietarla. Comunque, dopo l’Aspromonte, tornava comoda l’equazione “garibaldini uguale repubblicani”, e sotto il pretesto di ostacolare la propaganda – e le raccolte di fondi – dei Mazziniani, era ai Garibaldini che si voleva tarpare le ali. E tuttavia, fra i presenti non c’erano solo democratici e repubblicani, ma anche monarchici liberali. Di materiale propriamente massonico nell’appartamento occupato dalla Loggia se ne trova davvero poco: oltre alle spade (che non sembrano scandalizzare il Delegato), un inginocchiatoio. L’impressione che si trae da questi documenti è che i Fratelli della “Azione e Fede” prendessero alla lettera le indicazioni del Rituale, di lavorare senza tregua al proprio miglioramento, di abituare il proprio spirito a dedicarsi solo alle grandi affezioni, a non concepire che idee di gloria e di virtù, a regolare le proprie inclinazioni. Il lavoro rituale propriamente detto, quale noi oggi lo intendiamo, occupava un posto assolutamente secondario nei lavori di Loggia. Da questo punto di vista, la “Azione e Fede” non rappresentava una eccezione. I Fratelli pisani inviarono a tutte le Logge una circolare di protesta sia per raccogliere manifestazioni di solidarietà, sia per far capire a tutti i Massoni italiani la situazione triste e pericolosa in cui stava trovandosi la Massoneria e spedirono urgentemente nella capitale, a Torino, una commissione guidata dal Fratello Cesare Boccara, con l’intento di interessare sollecitamente dell’accaduto il Grande Oriente. Il 9 settembre, nella riunione tenutasi presso il Grande Oriente Italiano in onore dei rappresentanti pisani, un Fratello di Torino, Angelo Piazza, pronunciò le seguenti famose e fatidiche parole: “Ritengano i Fratelli che in ogni parapiglia politico i Massoni saranno sempre fatti segno alle ire dei Sanfedisti. Dunque all’insulto tenga dietro la riparazione. Se no si crederà che il nostro silenzio sia confessione di colpa e a questo si oppone il nostro decoro e l’onore nostro”. Sempre nel 1862, la R:.L:.”Azione e Fede” fece parlare di sé per un “Indirizzo alle Officine dell’Arte Reale” col quale le invitava a promuovere una petizione popolare al Parlamento, affinché la pena di morte fosse bandita dalla legislazione della nuova Italia. Nel regno di recentissima unificazione, la Toscana aveva conservato la sua legislazione penale, di gran lunga più mite di quelle piemontesi e napoletana, che erano di stretta derivazione napoleonica. La pena di morte in Toscana era stata abolita dal Granduca nel 1786; fu reintrodotta in epoca napoleonica, e mantenuta ai tempi della restaurazione, ma applicata solo in due occasioni fra il 1815 e il 1848. Fu abolita nuovamente nel 1848 e mai più applicata. Il Regno Sabaudo estese a tutti i territori annessi i Codici Sardi Penale e di Procedura Penale, con due importanti eccezioni: nei territori già delle Due Sicilie un Decreto Luogotenenziale del febbraio 1861 aboliva la pena di morte, salvo per i casi previsti dal Codice Militare ( e la giustizia sommaria fu intensamente applicata col pretesto della lotta al brigantaggio). In Toscana si conservavano legge e procedura granducali, di gran lunga più moderati di quelli piemontesi. Nel loro appello i Massoni pisani invocano proprio i buoni effetti del regime abolizionista sulla statistica criminale e sull’incivilimento dei costumi per sostenere la validità della loro tesi, suffragata per il resto da una argomentazione tanto semplice quanto definitiva. Il pronunciamento della “Azione e Fede” non ebbe riscontri immediati, ma fra il novembre 1864 e il gennaio 1865 altre Logge toscane e liguri ripresero il tema, sollecitando il Grande Oriente ad una campagna contro la pena di morte e per l’abolizione delle congregazioni religiose. Il Grande Oriente tuttavia optò per un atteggiamento defilato, concedendo la propria approvazione all’iniziativa ma chiedendo alle Logge di agire in proprio e prevalentemente nell’ambito profano. Gradualmente, anche per il ricordo dei troppi patiboli e plotoni d’esecuzione che avevano fatto strage di patrioti, e in odio alla mannaia papista, il movimento per una giustizia penale più umana e liberale e per l’abolizione della pena di morte si diffuse e divenne un tema centrale dell’azione massonica in Italia, ma anche in Francia e in Spagna. Solo in Italia ebbe successo. Sin dall’ascesa al trono di Umberto I, che nel gennaio 1878 concesse l’amnistia generale, la pena di morte non fu più applicata. Non si arrivò tuttavia all’abolizione formale per le resistenze, principalmente, della classe giudiziaria rappresentata in Senato. Ma infine, il nuovo Codice abolizionista fu approvato nel 1889 quasi all’unanimità da entrambe le Camere.
INDIRIZZO ALLE OFFICINE DELL’ARTE REALE
La pena di morte è la massima delle pene, colla quale la società si credette finora in diritto dei delitti più gravi, togliendo la vita a chi se n’è reso colpevole. Se consultiamo la storia, vediamo che nei primordii delle umane società essa si applicava frequentissimamente e per lievissime cause. Di mano in mano che quelle società progredivano nell’ incivilimento, noi vediamo restringersi quella pena a sempre minore numero di delitti; di modo che oramai essa non si applica più presso le società civili che ad alcuni casi di omicidio. Questo fatto storico di per sé solo ci mostrerebbe qual sia lo scopo ultimo a cui tende, quasi senz’avvedersene, l’umana società, guidata in ciò da una specie d’ istinto, che è la manifestazione della coscienza universale. Quello scopo è l’abolizione assoluta della pena capitale; e poiché quella che abbiam detto coscienza universale è ora illuminata e diretta dai profondi studi che i moderni filosofi fecero di questo importantissimo problema, è chiaro che ogni civile società si sente ora spinta con forza irresistibile a raggiungere questo fine con quel moto accelerato che l’ illustre Balbo dimostrò verificarsi, come nella legge della caduta dei gravi, così nell’incivilimento. Ma molti pregiudizi restano pur troppo ancora all’attuazione di così giusto principio. E in primo luogo la questione di diritto filosofico intorno all’assoluta iniquità della pena di morte, se da un lato può dirsi vinta nel campo astratto della scienza, lascia però sempre molti dubbi nell’animo di coloro, i quali, o timorosi o sprezzatori delle ardite teorie, prendono in prestito l’antico frasario per colorare la debolezza delle loro ragioni. Non è qui il luogo di ribattere con lungo discorso gli errori delle scuole passate, che si fecero ad infiorare coi loro sofismi la mannaja del carnefice. Basti notare che tutte si partono da un falso e inadeguato concetto del diritto individuale; tutte per quanto possano variare nelle loro manifestazioni, si restringono nell’essenza a considerare la vita (secondo le parole di Rousseau) come un dono condizionale dello Stato, che può quindi esser perduto, rinunciato, trasmesso. All’ incontro la scienza moderna vede nella vita un beneficio e un diritto, che hanno radice nella stessa legge di natura; nega alla società la facoltà di togliere per qualunque causa un bene che non può dare, e del quale anzi abbisogna, come elemento necessario alla propria costituzione organica, e ordinata conservazione; professa finalmente tanto rispetto per l’individuo, che stima sacra la sua esistenza, e la pone sempre qual fine supremo di ogni sanzione legale. Tutto ciò, si dice da alcuni, può aver peso come pura speculazione; ma le idee non valgono contro l’utilità politica e i bisogni del viver civile: è forse giunta la società a tal punto di perfezione da poter far senza di questa estrema pena? E per quanto possa oppugnarsene I’ astratta giustizia, non dovrà pur troppo accettarsi, quando abbia l’attributo essenziale che ogni legge deve avere: la necessità? Dopo tutto quello che è stato detto e scritto da insigni pensatori su questo argomento, non riescirà difficile provare che essa è priva affatto di questo carattere. -Il diritto della propria conservazione dà all’individuo la facoltà di respingere colla forza la violenza che da altri gli venga fatta, ma sempre ne’ limiti di necessaria difesa; e soltanto si giustifica l’uccisione dell’assalitore, allorquando l’ assalito ha esaurito tutti i mezzi di difesa. Ora, risalendo dall’individuo alla società, non è chi non veda come questa abbia infiniti mezzi di difendersi senz’aver bisogno di ricorrere a questo estremo, e come facilmente essa possa togliere ad un individuo la possibilità di nuocere senza torgli la vita. A buon dritto si potrebbe dunque chiamare la pena di morte, un vero e inescusabile abuso di potere della società.