Tempo di attesa, tempo perduto, tempo virtuoso? Tempo sospeso
di Giuseppe Palchetti
Mi piace far precedere i miei pensieri su un argomento così delicato e importante con un accenno all’Arte. L’arte, che sia una scultura, una poesia od una pittura, è certamente la via più eccelsa per rappresentare la propria visione della vita, del mondo, o se si preferisce dell’amore o della bellezza. Allo stesso modo la filosofia dovrebbe potersi accompagnare ad una iconografia, ad una immagine, ad una figurazione e allusione per trasformare i concetti in mondo, i pensieri in vita, la realtà in rappresentazione. Il quadro “Il ponte di Eraclito” dipinto da Magritte nel 1935 rappresenta un ponte rotto o interrotto a metà che si riflette nel fiume per intero. Il fiume va a perdersi in un cielo di nuvole. L’opera è un vero e proprio trattato visivo sulla realtà e l’illusione, sull’essere ed il divenire, sul visibile e l’invisibile. La verità è nel fiume che riflette il ponte intero o nel ponte tronco che ci appare nella realtà? Il ponte intero è la verità oltre le apparenze, è l’immaginazione oltre la realtà o è la memoria del passato perduto, l’integrità di quel tempo? Ma potrebbe anche trattarsi di un ponte incompiuto, lasciato a metà, di cui l’acqua annuncia il presagio della sua compiutezza, come in un rapporto fra la potenza e l’atto. La vita, come la verità, è un gioco fra l’essere ed il fluire, tra quel che appare e quel che scompare, ma anche tra il ricordo e la percezione. Il Ponte di Eraclito appare come la metafora del progetto da compiersi: la parte visibile da cui partiamo, che si affaccia nel vuoto e si proietta verso la parte ancora da compiersi. Ma quel che accadrà traspare, già riflesso o previsto nel destino dell’acqua. Oppure rappresenta la parte incompiuta di quel progetto che si sarebbe voluto realizzare, ma che infine rimarrà solo un’immagine, un sogno? Ricorro all’immagine del ponte interrotto o, se vogliamo, del ponte sospeso sul fiume utilizzandola come uno strattagemma, un “trick” visivo per indirizzare l’attenzione sul tema al quale sono dedicate le riflessioni (poche e incomplete) che si sono rincorse in questi giorni nella mia mente e che vorrei condividere con chi di voi avrà voglia di dedicare un po’ del suo tempo alla lettura di queste note. Da poco ci eravamo lasciati con la celebrazione del Solstizio di Inverno e con il ricordo, emozionante e vivo, dell’Installazione del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, Ven.mo e Pot.mo Fr. Luciano Romoli, e della intera Gran Maestranza alla presenza dei S.G.C.G.M Emeriti Ven.mi e Pot.mi Fratelli Luigi Danesin e Antonio Binni, e quindi con il cuore pieno di gioia e di attesa per un nuovo anno intenso e fruttuoso, quando una malattia sconosciuta e subdola ha colpito il mondo, i nostri luoghi, il nostro spazio e il nostro tempo. Simili pandemie si sono verificate periodicamente nella storia della nostra specie, ma la condizione globalizzata del mondo contemporaneo rende questo evento nuovo ed unico. L’emergenza legata alla diffusione del Coronavirus, dopo mesi dalla sua comparsa, è ancora in corso nelle nazioni del mondo ma quel che già appare evidente è che anche questa pandemia avrà forti ripercussioni sulla società, l’economia e la psiche della popolazione. Propedeuticamente alla trattazione del tema, credo sia opportuno e necessario effettuare un excursus storico su analoghi eventi che nel passato hanno colpito il mondo. Prima del Covid-19, almeno altre 13 pandemie hanno infierito negli ultimi 3000 anni. Tutte o quasi generate da zoonosi, il salto di specie fra gli animali, selvatici o da allevamento, e l’uomo attraverso successive mutazioni genetiche dei virus. Ogni pandemia o epidemia ha cambiato il corso della storia: accompagnando o provocando guerre, migrazioni, crolli di imperi, sistemi economici, poteri religiosi, persecuzioni ideologiche. Basta sfogliare i libri di storia per trovare le principali catastrofi epidemiche: dal 430 al 426 a.C. vi fu la Peste Ateniese che colpì la città durante la guerra con Sparta e fece 70-100 mila vittime, fra le quali vi fu Pericle, leader dell’egemonia ateniese. I germi che scatenarono l’epidemia, provenienti dall’Africa Settentrionale, giunsero dalle navi in sosta nel Pireo. L’epidemia, oltre ad uccidere metà della popolazione, incise profondamente sulla società, al punto che alcuni storici fanno risalire a quell’evento l’inizio della decadenza dei costumi che pose fine al periodo aureo della civiltà greca. Scrive Tucidide: “Più facilmente uno osava quello che prima si guardava dal fare per suo proprio piacere. E ad affaticarsi per ciò che era riconosciuto nobile più nessuno era disposto”. Nel 541-542 d.C. e fino al 750 d.C. a ondate, vi fu la Peste Giustinianea che colpì Costantinopoli e mieté fra i 50 e i 100 milioni di morti. Anche in questo caso la morte arrivò dal mare, a bordo delle navi provenienti dall’Egitto, paese che a sua volta l’aveva importata dall’Estremo Oriente attraverso i commerci. È considerata da alcuni storici la causa della fine dell’Impero Romano d’Oriente. Questa peste si diffuse poi in Europa attraverso i legionari romani che tornavano in patria, e flagellò le regioni che si affacciavano sul Mediterraneo per più di due secoli. Tutte le più grandi epidemie dell’antichità sono arrivate dal lontano Oriente, a quei tempi (ma forse ancor oggi) una sorta di grande laboratorio batteriologico naturale, dove avevano luogo mutazioni di ceppi virali e dove nascevano malattie nuove. L’Italia, poi, era particolarmente vulnerabile in quanto crocevia obbligato di merci e quindi di germi. La Peste Nera arrivò nel porto di Messina nel 1346 d.C. su dodici vascelli proveniente da Caffa (Mar Nero) carichi di grano, topi, moribondi e cadaveri. All’assedio di Caffa mongoli e cristiani si lanciavano a vicenda i cadaveri degli appestati. Si diffuse nel Vecchio Continente dal 1346 al 1353 a seguito delle invasioni dell’Orda d’Oro tartaro-mongola lungo la via della seta, portata dalle pulci dei ratti dove si annidava il batterio della Peste Bubbonica, ed ebbe come conseguenza dai 25 ai 100 milioni di vittime. In pochi anni, il morbo si propagò in quasi tutta l’Europa. Di fronte all’avanzata della “morte nera” (chiamata così dal colorito delle vittime negli ultimi stadi della malattia) la medicina del tempo era impotente. “In tre anni, la peste uccise un terzo degli europei. Dimezzò la popolazione di Firenze; ad Amburgo e a Brema morì il 70% degli abitanti. Milano fu la sola città italiana che riuscì a contenere l’epidemia, grazie a misure drastiche che prevedevano, fra le altre cose, che le case infette venissero barricate lasciando morire al loro interno i malati e tutti i loro parenti”. Fu una catastrofe umanitaria che ebbe un fortissimo impatto sulla società, dal punto di vista sia demografico sia culturale e sociale. Cambia il mondo agricolo del Medioevo, alcuni storici scrivono di «fine dell’antichità». “Se devo morire fra poco, perché andare nei campi?” è il ragionamento che spinge molti agricoltori ad abbandonare le terre, che presto diventano deserti. Ma chi sopravvive, immunizzato e trasferito nelle città, vivrà meglio: diventerà manodopera ricercata e più pagata di prima, mentre la scarsità di braccia fa crescere ovunque l’innovazione tecnico-meccanica, come la stampa e le armi da fuoco. Con meno soldati in campo, ai re e signori occorrono più armi. La Peste Nera porta anche i pogrom antisemiti, i peggiori fino ai tempi della Shoà, con gli ebrei accusati come untori. Nel 1348 una bolla di papa Clemente VII vieta di «ascrivere agli ebrei delitti immaginari». Per arginare il contagio furono istituiti i “pubblici uffici”, che si occupavano dell’organizzazione dei lazzaretti, delle quarantene e delle disinfezioni. Era l’embrione del sistema sanitario moderno. Per quasi un secolo la peste tornò periodicamente, senza però mai causare i disastri della prima ondata. Dall’altra parte dell’oceano, invece, a partire dal Cinquecento i germi dell’influenza, del vaiolo e del morbillo, portati dai conquistadores e contro i quali le popolazioni locali non avevano difese (cioè anticorpi), contribuirono ad annientare la civiltà degli Aztechi e, più tardi, dei Pellerossa. Per l’Italia, il periodo di relativa calma si concluse nel 1630 con la Peste di Milano, quando “la peste, che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrare con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero”, come scrisse nel 1842 Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Il quadro di desolazione rievocato dallo scrittore non è diverso da quello che tanti cronisti avevano raccontato prima di lui: “Dopo la peste, si trovò la popolazione di Milano ridotta a poco più di 64 mila anime, prima passava le 250 mila”. L’epidemia – portata dai Lanzichenecchi al servizio dell’imperatore tedesco Ferdinando II – non rimase confinata alla Lombardia, ma si estese presto ad altre regioni dell’Italia Settentrionale. Nello stesso periodo colpì duramente anche la Spagna, giocando un ruolo nel declino della sua influenza in un’Europa che vedeva sorgere le potenze di Francia e Inghilterra. Fra Ottocento e Novecento la peste coinvolse l’Estremo Oriente. Fu in questa occasione che il microbiologo svizzero Alexandre Yersin identificò il batterio responsabile, che adesso porta il suo nome: “Yersinia pestis”. Ma mentre la malattia che più di ogni altra ha falcidiato l’umanità si esauriva, facevano la loro comparsa altri morbi capaci di cambiare le sorti delle nazioni. Proveniente dall’Asia, il colera colpì duramente l’Europa a partire dall’800. Da Londra il morbo giunse a Parigi, passò in Germania, attraversò l’Impero asburgico (mettendo a dura prova le sue infrastrutture e accelerandone la disgregazione) e arrivò in Russia. Viaggiando sulle rotte commerciali giunse in Africa e in America. Per il modo in cui si diffuse, il colera fu la prima grande emergenza del mondo globalizzato. La seconda, e la più spaventosa nella storia contemporanea, è stata la Spagnola, pandemia del 1918-1920 (dilagata in due ondate, una primaverile e una autunnale, seguita forse negli Usa da due altre ondate minori fino al 1925). Esplosa alla fine della Grande Guerra, quando le popolazioni erano più debilitate e le truppe si muovevano da un continente all’altro, e trasmessa attraverso uccelli o suini dal virus H1N1 uccise fra i 50 e 100 milioni di persone nel mondo, molto di più delle vittime della stessa Grande Guerra. Arrivò fino ai confini del globo abitato, sull’Artico e fu chiamata così perché ne parlarono per primi i giornali spagnoli. Questa pandemia provocò un terremoto demografico e migratorio: molti lasciarono le proprie nazioni alla ricerca di Paesi «sani», che però non c’erano, e colpì soprattutto giovani e adulti sani che, nella normale vita civile producendo, vendendo e comprando merci, erano la spina dorsale del sistema economico. Provocò ovunque la crisi della domanda e dell’offerta, della produzione e del consumo: un vero choc per qualsiasi Paese anche economicamente sano (anche se la manodopera, diventata ricercata e rara, ottenne salari migliori). Il Pil dell’Europa occidentale calò del 7,5%. Tutto questo non poteva non avere effetti destabilizzanti sui sistemi politici e sociali interni. Secondo alcuni storici la Spagnola, che coinvolse tutta l’Europa e gli Usa, è alla fine una delle concause indirette anche della Seconda Guerra Mondiale. Nell’ultimo secolo, un’altra epidemia trasmessa da uccelli (anatre selvatiche dalla Cina) è stata l’influenza asiatica del 1956, provocata da un virus sottotipo dell’H1N1. Durò due anni e fece 1 milione di vittime nel mondo, ma diluita nel tempo non ebbe grandi conseguenze sul boom economico in corso. Nel XXI secolo, i coronavirus hanno compiuto il salto di specie diffondendosi tra gli umani in tre occasioni, ogni volta causando epidemie mortali: la SARS-Cov (Severe Acute Respiratory Syndrome – CoronaVirus) alla fine del 2002, la MERS-Cov (Middle East Respiratory Syndrome) nel 2012, e ora il SARS-Cov-2, dal quale la malattia respiratoria chiamata COVID-19 (CO-rona VI-rus D-isease 2019). Credo che questa analisi storica, oltre ad essere interessante per aver messo in evidenza le ripercussioni che le terribili “pestilenze” hanno avuto sulle società dell’epoca, sia stata anche utile perché in realtà non credo che tutti noi si sia bene a conoscenza di quali e quante epidemie la storia sia stata testimone. In tutti i palinsesti televisivi delle diverse emittenti e in tutte le numerose testate giornalistiche della carta stampata non mi è capitato, fino ad oggi, di trovare reportage e servizi dedicati a questo passato. Troviamo ore ed ore di dibattiti televisivi e fiumi di inchiostro indirizzati ad analizzare le “curve epidemiologiche” ed i modelli matematici di previsione sui “picchi di contagio”, ma nulla su quanto nella storia è avvenuto in occasioni similari. Non si ha memoria del passato, si vive costantemente nel presente, nell’oggi, nell’adesso; mentre ciò che è accaduto anche solo ieri è già destinato all’oblio, salvo si tratti di episodi che possano portare a scandali giudiziari e/o politici. Di informazione può essercene troppa. Viviamo in un mondo dove i media sono attivi 24 ore su 24 e vogliono che la gente consulti la loro piattaforma perché sono in grado di offrire qualcosa un minuto prima di un’altra. È un tipo di competizione che non fa bene a nessuno e penso che noi, come consumatori di notizie, si debba resistere all’ossessione di sapere quale sia l’ultimo dato, l’ultimo caso, l’ultima notizia dell’ultima ora. Abbiamo certamente bisogno di una copertura giornalistica che approfondisca le cause e gli effetti, del numero dei tamponi, dell’aumento o diminuzione dei contagi, del numero dei decessi giornalieri o totali. Ma abbiamo bisogno anche di altre cose, non solo di storie che riguardino il coronavirus che aumentano l’ansia e il panico, l’incertezza del domani. Abbiamo bisogno di prendere consapevolezza del nostro passato e di come l’umanità abbia saputo e voluto reagire ad eventi tragici come, e forse ancor più, di questo. Oggi, a differenza di ieri, abbiamo tecnologie e conoscenze che ci consentono di essere vicini anche nella separatezza. Internet, la Rete, i social media, che tanta preoccupazione hanno sino ad oggi alimentato in noi per il loro effetto di allontanare le persone e creare contatti e comunità solo virtuali, oggi ci hanno consentito di affrontare e mitigare il forzato “distanziamento sociale”. Hanno consentito di creare momenti di aggregazione (anche questi virtuali) dai quali sono scaturiti forti vincoli di solidarietà, di fratellanza, di senso di appartenenza. Tutto ciò è accaduto in numerose nazioni del mondo, quali che fossero le diverse realtà sociali, stimolando anche sentimenti patriottici e di orgoglio nazionale da tempo scomparsi e ritenuti anacronistici e superati. Questa epidemia ha comportato un impatto così profondo e inatteso sulle nostre abitudini di vita e sui nostri comportamenti sociali, che mai avremmo solo immaginato. L’isolamento sociale ha costretto una larga parte della società a confrontarsi con se stessa, non avendo più l’opportunità di nascondersi fra gli altri partecipando ad “aperi-cene”, “convention”, “eventi multimediali” dove la confusione e lo stordimento permettevano una sorta di oblio del sé. È evidente che si sente sempre più bisogno di mantenere viva l’empatia con gli altri, anche se distanti abbiamo bisogno di cultura, di arte, di musica, di bellezza e ricerchiamo tutto questo ricorrendo in modo massivo ai mezzi che la tecnologia ci offre: Tv tradizionale, Social media, Internet, eventi in streaming, device di ogni tipo, etc. Come definire questa opportunità che ci è concessa? Magnifica da una parte perché non siamo più soli fra le mura della nostra casa, magnifica perché sentiamo la voce del mondo che ci raggiunge, magnifica per le immagini suggestive ed emozionanti di una Piazza San Pietro immensa e silenziosa, ma al contempo così umana e fragile. Oppure. Straziante per le immagini dei mezzi militari che trasportano i feretri della città di Bergamo, terribile per le testimonianze di coloro, medici e infermieri ed operatori sanitari di ogni genere, che quotidianamente combattono nelle trincee degli ospedali e dei Pronto Soccorso, angosciante per le apocalittiche previsioni sullo scenario economico che ci attenderà nei prossimi mesi, anzi nelle prossime settimane. Catastrofico è il sentimento comune che pervade la maggior parte dei post che a migliaia si rincorrono sui vari Tweeter, Facebook, Instagram e altri: dalle ipotesi di terribili e sofisticati complotti che hanno causato questa epidemia al fine di favorire interessi di multinazionali finanziarie o farmaceutiche, millenaristici allarmi di una Natura ferita ed offesa che riprende il sopravvento su una Umanità prona e succube della tecnologia e dello sfruttamento delle risorse. Tutti questi elementi hanno contribuito a creare una situazione paradossale e pericolosa che però potrebbe avere una sua funzione se utilizzata per metterci di fronte ad una realtà dai risvolti nuovi che ci costringa ad una riflessione sullo stato delle cose. Spesso i cambiamenti più profondi derivano da contingenze drammatiche che costringono le persone a riesaminare radicalmente il loro modello di vita, e in questo caso potremmo beneficiare della grave situazione per elaborare soluzioni a beneficio di tutti. Lo stare con se stessi non è semplice né comodo, mille pensieri sorgono e si rincorrono, chiedendo alla mente di elaborare domande e risposte non sempre facili o gradite. In questo periodo in cui siamo costretti a stare con noi stessi (se lo stare con se stessi può essere definito una costrizione!) sembra di vivere in un “tempo sospeso”, un tempo non più scandito dai vari impegni che quotidianamente “prima” ci prendevano. Anche se qualcuno di noi pur continua ad andare a lavorare perché alcune attività vanno comunque effettuate, il fluire del tempo ha preso una forma diversa, forse dovuto anche allo straordinario silenzio che pervade le nostre città, alle strade e ai viali deserti, alla chiusura delle attività commerciali che vivificavano i nostri quartieri. Difficile abituarsi a tutto questo anche se limitate sono le uscite dalle nostre case. Un tempo che inizialmente abbiamo pensato di poter utilizzare per fare cose e attività “prima” relegate ai pochi momenti di tempo libero: leggere, studiare, ascoltare musica, meditare! “Tempo libero”: come è diventata strana questa espressione. Non ha più significato perché di tempo ora ne abbiamo anche fin troppo e sicuramente non può certamente dirsi libero perché non possiamo dedicarlo a ciò che ora ci appare necessario e insostituibile: la passeggiata nel parco, la girata in bicicletta, la visita al commercialista, il pranzo domenicale con la suocera ()! Le altre attività originariamente tipiche del tempo libero (il pomeriggio sul divano, il film alla TV) adesso diventano qualcosa non più così appetibile. Anzi per qualcuno possono diventare fonte di ansia e di stress. Come possiamo allora definire questo tempo sospeso: “tempo di attesa”, “tempo perduto” o “tempo virtuoso”? Il periodo iniziale può sicuramente identificarsi come un tempo “di attesa”, una sensazione di pausa nella vita normale, una pausa nei tempi normalmente scanditi da molti impegni e attività, nella serena (ingenua!) convinzione che tutto potesse risolversi in un limitato e breve lasso di tempo, grazie al sistema sanitario ed ai provvedimenti di prevenzione adottati. Siamo stati tutti bravi: abbiamo imparato a stare a casa e a stare in coda, a mettere la mascherina, abbiamo fatto i cori dai balconi, messo gli striscioni alle finestre, cantato l’Inno di Mameli sentendoci orgogliosi di essere italiani (cosa che avviene di solito solo in occasione delle partite di calcio della Nazionale!), condiviso su Facebook i video delle piazze e strade italiane deserte con la colonna sonora di una musica di Ennio Morricone in sottofondo. Abbiamo dimostrato di essere fiduciosi e pazienti e generosi, infine ci siamo riscoperti tutti – ciascuno di noi negli occhi dell’altro – un Paese migliore. Belle sensazioni, belle emozioni, finalmente qualcosa capace di aggregare un popolo notoriamente polemico e dissacratore (selfie psicologico di un toscano, anzi di un fiorentino!). Siamo stati bravi perché siamo andati a ricercare libri, testi massonici e rituali remoti riposti con cura in attesa del “giusto momento” per essere letti, e abbiamo veramente iniziato a leggerli e a studiarli. Tempo quindi “virtuoso” e fecondo, nel quale sentirsi ancor più parte, grazie all’opera instancabile del suo vertice, di una grande famiglia, di una Obbedienza forte e presente a tutti i livelli. Dalle singole Officine di ogni Oriente, all’organizzazione provinciale e regionale, alla struttura nazionale. Il ricorso ai diversi software e alle numerose “App” oggi disponibili a tutti, ci ha consentito di riunirci, comunicare vedendoci negli occhi (non solo come voci lontane), riappropriandoci anche di temi e argomenti “prima” usuali, consueti, quotidiani e ora rapidamente diventati oggetto di nostalgia. Ma, c’è sempre un ma, tutto questo comincia a diventare piano piano sempre più pesante e difficile da vivere: l’attività lavorativa, la professione, forzatamente interrotti diventano ogni giorno motivo di preoccupazione economica e incertezza nel futuro. La lontananza di una figlia, all’estero per studio, fragile e grintosa come tutte le adolescenti sanno essere, e difficile da raggiungere nel caso qualche problema potesse intercorrere in questi tempi di blocco delle frontiere, portano a maturare altri sentimenti. Il tempo passato (di “attesa”, “virtuoso”, “fecondo”) comincia sempre più ad apparire “perduto” e sempre meno sopportabile, l’insofferenza ed il nervosismo cominciano a trasparire nella quotidianità e nell’approccio agli altri. Ascoltando e leggendo i vari commenti sui social media, escludendo le critiche alle misure prese dal governo o dall’Europa, sembra comunque che ci sia una rinnovellata solidarietà fra gli uomini sia profani che iniziati. Se le inutili chiacchere non sciupassero il terreno, avremmo la base ideale per mostrare il nostro modo di vivere ed i nostri ideali che sono alla base della vita di ogni uomo. Il nostro esempio dovrebbe rafforzare l’idea di dignità dell’uomo, con la sua natura incondizionata e intangibile, da individuarsi nella ragione che, innegabilmente, vale per tutti gli uomini perché appartiene a tutti gli uomini. “A fronte della sua intangibilità deve per forza fare da contraltare il principio di responsabilità dell’uomo dal quale nascono obblighi cogenti precisi, primo fra tutti il dovere di assicurare alle future generazioni la possibilità di vivere in un ambiente intatto, in quanto l’uomo non è il padrone del cosmo ma solo in senso autenticamente giuridico un suo usufruttuario. Anche i diritti umani si fondano sulla ragione, che è comune a tutti gli uomini.(Ven.mo e Pot.mo Fr. Antonio Binni, 33 Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Emerito della G.L.D.I.) L’appartenenza alla nostra Istituzione dovrebbe averci insegnato che l’Uomo è sempre artefice di se stesso e che il tempo è la cosa più preziosa che ha a sua disposizione per lavorare su di sé. Come impiegarlo è scelta che appartiene solo a ciascuno di noi. “La Massoneria è il luogo in cui uomini di buona volontà, che intendono lavorare su se stessi, si attivano per scendere verso le profondità sconosciute del proprio essere, allo scopo di scoprirne i recessi, correggerne le asperità ed esaltarne i pregi. L’Istituzione indica loro la strada, suggerisce percorsi, propone comportamenti, ma ciascuno svolge per suo conto il proprio lavoro, che lo condurrà alla consapevolezza di sé e del suo ruolo nel mondo.” (Ven.mo e Pot.mo Fr. Luciano Romoli, 33 Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della G.L.D.I.) Pur nella convinzione che le profonde motivazioni dell’essere umano sono sempre le stesse nel mutare degli scenari, delle culture, delle civiltà, resta però il fatto che sconvolgimenti così profondi, come quelli attuali, non sono stati mai vissuti dalla civiltà umana. Così come avveniva nel secolo dei Lumi, bisogna tornare a fare della Massoneria, il crogiolo delle nuove idee, il luogo deputato a progettare la società del futuro, dove poter sognare la nuova società umana. Di qui l’esigenza di “pensare” alla “nuova Massoneria” come volano delle nuove idee e delle nuove necessità dell’Umanità del domani. Scopo della Massoneria, oggi come nel passato, è dunque quello di “rimpadronirsi” del futuro, nella cultura iniziatica esiste un immenso patrimonio di idee e di valori da trasmettere da una generazione all’altra e che sono in grado di influenzare il mondo profano e l’intera società. Solo la finitezza dell’uomo può rallentarne il raggiungimento ma, come ci suggerisce il quadro di Magritte, quel che accadrà traspare, già riflesso nel destino dell’acqua.