Il vaso di Pandora, ovvero il mito dell’Oriente

Nel Romanzo di Alessandro troviamo una frase che sembra sintetizzare perfettamente quanto l’Oriente ha rappresentato (e continua a rappresentare) di singolare per la cultura occidentale: “Tutte le storie, se sono verosimili, provocano stupore in chi le ascolta”. E lo stupore, come ben sapevano gli antichi, è figlio della meraviglia e, a sua volta, genera il desiderio di conoscere, di varcare i confini nebulosi della realtà posseduta. Il “caso Oriente”, in effetti, sembra sfuggire a qualsivoglia tentativo di conoscenza definitiva, quasi che le antiche designazioni di Terra incognita o Terra deserta con cui, dall’antichità fino al XIII secolo d.C., si indicavano le terre al di là del Gange, dell’Himalaya, del Pamir e degli Urali sulle carte geografiche abbiano impresso un loro incancellabile sigillo nell’immaginario occidentale.

Caso pressoché unico nella nostra cultura, l’Oriente è rimasto nella sua es-senza, nonostante le progressive acquisizioni geografiche, le imprese commerciali, il dominio coloniale, una regione inafferrabile, vagante, impossibile a disegnarsi. Come nei mappamondi medievali, la sua forma rimane instabile: ora isola rotonda circondata da raggi e stelle (il Paradiso terrestre), ora stupe-facente penisola-serpente che si dilata, si allunga, si attorciglia, così come al suo interno le terre emigrano perpetuamente da un confine all’altro, i mari si trasformano in deserti e le proporzioni si ingigantiscono a dismisura.
L’Oriente, dunque, lungi dall’esaurirsi entro i confini delle carte geografiche, si espande nell’altrove, rivelandosi non come realtà geografica ma come luogo a-spaziale e a-temporale dell’immaginario, ovvero come infinito serbatoio di desideri, fantasie, illusioni e terrori che mai l’esplorazione e l’esperienza pratica potranno cancellare.
Non a caso la sua “storia”, così duratura tanto da alimentare anche ai giorni nostri facili esotismi ed evasione vagamente salgariane, da sognatori in pol-trona, non nasce dalle mitiche spezie, dalle sete cangianti o dalle pietre pre-ziose che con straordinaria regolarità i mercanti facevano pervenire agli empori occidentali. Nasce, invece, dalla “parola”, dalla finzione letteraria, per farsi subito mito, scrittura del desiderio e dunque, ambiguamente, verità della mente.

Nulla è più vero dell’Oriente sognato dalla cultura occidentale, dell’Oriente inviolato e inviolabile, fantasmagoria di colori e di suoni che solo la parola può disvelare e creare. La netta divaricazione fra i resoconti dei geografi antichi, greco-romani e più tardi arabi, le cronache dei pellegrini, dei mercanti e dei missionari e le fabulae dei visionari in poltrona ne è testimone eloquente: da un lato la fedeltà al contingente, lo sguardo rivolto al concreto, al noto; dall’altro la fantasmatica esplosione di presenze irreali e stravaganti che solo una terra incognita può generare. Poco importa che i Guglielmo di Rubruk, i Solimani, i Abu-Zeid, i Marco Polo, i Pian del Carpine, i Frescobaldi e i Rinuccini concedano un certo spazio all'”ingenuo”, al meraviglioso: il loro resta, comunque, il tono del mercante, dell’uomo pratico, conoscitore del mestiere, degli uomini, del mondo. Se elencano, il loro è il minuzioso inventario di un fondo, se descrivono un popolo, è il racconto oggettivo di usi, costumi, credenze. Sono avventurieri – e in quanto tali abbelliscono e infiorettano le loro rievocazioni -, ma lo spirito che li anima è quello “pratico” del mercante che guarda all’utile o dell’uomo di Dio che deve propagandare la propria verità. Ben diverso il tono fabuloso di Isidoro di Siviglia, di Brunetto Latini e, più tardi, dell’Ariosto, per i quali l’Oriente è la terra dell’oltranza, la sede dell’Eden, il luogo da cui provengono inquietanti e fascinosi richiami, magari nelle forme perturbanti della bellissima Angelica o in quelle luminose del fiume tappezzato di pietre preziose. Per questi uomini elencare significa creare dal nulla, in un continuum di immagini meravigliose, la terra del sogno, così come fabulare significa perpetuare quei miti che nessun lume della ragione può estirpare dal cuore degli uomini. E se i primi tracciano sempre più precisamente i grandi itinerari delle merci e degli scambi culturali, i secondi disegnano le mappe dei sogni e degli incubi umani.

Ma quando l’Oriente, questo vaso di Pandora, ha incominciato a popolare i sogni dell’Occidente europeo, fino a diventarne l’immagine speculare ma capovolta, di volta in volta fomentatrice di desideri e paure? Quando la cultura cristiana ha iniziato a cercare una terra “altra” in cui il Paradiso terrestre si rivelasse raggiungibile o comunque possibile?
Se nel IX secolo la fittizia Epistola di Alessandro ad Aristotele aveva aperto le porte ai mirabilia orientali, è nell’ultimo quarto del XII secolo che il mito dell’Oriente assume quei connotati che continueranno per secoli ad accendere le fantasie degli Europei, incolti e dotti. L'”operazione”, se così è concesso definirla, è avviata dall’anonimo redattore della Lettera del prete Gianni, uno dei testi più straordinari e diffusi del Medioevo, tanto che già sul finire dello stesso XII sec. tale Roanz d’Arundel dava l’avvio all’opera di volgarizzazione del testo con una traduzione in anglo-normanno, cui seguirà nel XIII secolo una anonima versione in prosa antico-francese.

Ma, al di là della catena di traduzioni e riscritture della Lettera, ciò che conta sottolineare in questa sede è la natura particolare del testo, vero e proprio ponte fra due mentalità egualmente attratte dal teratologico e dal diverso, ma profondamente dissimili nel percepire e nel rapportarsi con questi elementi: quella propria al naturalismo pagano, disposto ad accettare la possibilità e verosimiglianza del mostruoso, e quella della cultura cristiana, tesa a ricondurre (anzi, a esorcizzare) il diverso, l’eversivo, all’interno di un ordine supremo garantito dalla volontà divina.
Così, i materiali estraibili dalla Historia Naturalis di Plinio o dalla Collectanea rerum mirabilium di Solino (III sec.), mediati dai Padri della Chiesa (Agostino per primo) e dai primi enciclopedisti medievali, vengono a fondersi e sovrapporsi, fino a disegnare la mappa del misterioso regno del Prete Gianni, posto in un Oriente che nei secoli sarà ora l’India, ora l’Asia, ora l’Africa, ora l’America dell’Eldorado.

Regno utopico quant’altri mai, all’insegna dell’abnorme e dello sconfinato, cristiano ma popolato da presenze demoniache, continuamente soggetto a slittamenti di senso (proprio come lo strumento che lo crea, la parola), il dominio del leggendario Prete Gianni (il Giovanni dell’Apocalisse, un prete etiope, un principe cinese, un omaggio a Giovanni III, duca di Napoli nella prima metà del X sec., presente nel prologo della Historia de Preliis) offre diversi piani di lettura, sfuggendo a ogni definitiva incasellatura critica: risposta utopica ai disordini politici e alle insicurezze esistenziali dell’Europa medievale, catalizzatore di alterità culturali, mero serbatoio di meraviglioso letterario, enciclopedia romanzata per i laici e quant’altro è possibile.
Proprio come il mito che crea, è vicino, a portata di mano, eppure sfugge a ogni possesso; è lì, a garantire la realtà del Paradiso terrestre, nel momento stesso in cui ne confonde gli accessi, sorta di “isola non trovata” che scivola nel mare dell’immaginario collettivo.

E allora, se proprio si vuole fissarne i confini labili e incerti, salvaguardando l’integrità del mito, tentiamone una decifrazione a partire dagli statuti fonda-mentali dell’immaginario e della parola che lo esprime: l’ambiguità di senso e il logos. Ambiguo e paradossale, l’immaginario nel suo polimorfo e cangiante riverberarsi sulla realtà contingente vive in una dimensione altra: quella della dismisura e del caos, del teratologico e del combinatorio (il mostro altro non è che un puzzle che sfida i principi biologici). Acronico e a-spaziale, affianca lacerti del cosmo ordinato per creare un magmatico disordine fecondo di fantasie alternative. Dall’altra parte, nel momento stesso in cui si lascia “raccontare”, l’immaginario si affida alla parola ordinatrice, la quale ne travisa o esorcizza le valenze eversive, imbrigliando la dismisura nei confini certi del discorso razionale.
L’Oriente del Prete Gianni, il nostro Oriente, è appunto questo: un coacervo di desideri proibiti e di mostruosi parti della mente a cui il logos dà un ordine, fittizio certo, ma comunque necessario a conferire un senso alle proiezioni della mente.

Non è per caso, dunque, che nel testo della Lettera una precisa collocazione geografica separi, pur nell’omogeneità del “regno”, il mostruoso dall’ordinato. Dichiara orgoglioso il Prete Gianni, proprio in apertura alla Lettera (§ 12-14) (1):

12. La nostra Sovranità si estende sulle tre Indie e dall’India Maggiore … i nostri confini si inoltrano nel deserto, si spingono verso i confini d’Oriente e ripiegano poi verso Occidente sino a Babilonia deserta, presso la torre di Babele. 13. Settantadue province sono a noi sottoposte e di esse poche sono cristiane e ognuna ha un suo re e ognuno di essi ci paga tributi. 14. Nei nostri domini nascono e vivono elefanti, dromedari, cammelli, ippopotami, coccodrilli, metagallinari, cameteterni, tinsirete, pantere, onagri, leoni bianchi e rossi, orsi bianchi, merli bianchi, cicale mute, grifoni, togri, sciacalli, iene, buoi selvatici, sagittari, uomini selvatici, uomini cornuti, fauni, satiri e donne della stessa specie, pigmei, cinocefali, giganti alti quaranta cubiti, monocoli, ciclopi, un uccello chiamato fenice e pressoché ogni tipo di animale che vive sotto la volta del cielo. …

Di fatto, nelle regioni estreme vivono genti mostruose (pagane) che già Ales-sandro Magno aveva incontrato, affrontato e recluso “… tra monti altissimi, verso Settentrione …”):

15. Abbiamo altre genti che si cibano solo di carne, tanto degli uomini quanto degli animali bruti e dei feti … 16. Queste genti si chiamano: Gog e Magog, Amic, Agic, Arenar, Defar, Fontineperi, Conei, Samante, Agrimandi, Salterei, Armei, Anofregei, Annicefelei, Tasbei, Alanei … (Ibidem, § 15-16) (2);

ma anche genti “meravigliose”, le Amazzoni e i Bramani, che difendono il cuore del regno o con la loro forza e l’ausilio di “aiutanti magici o con la loro virtù:

K. Le amazzoni sono donne che hanno una loro regione; la loro dimora è un’isola che si estende per mille miglia nelle quattro direzioni, circondata da ogni parte da un fiume che non ha inizio né fine … L. In questo fiume … Vi si trovano anche altri pesci che hanno la forma di grandi cavalli, con quattro piedi assai ben disposti, un collo convenientemente lungo, una testa piccola, orecchie appuntite e code che si posano qua e là nel modo più appropriato. M. Certamente sono per natura umani come se fossero stati allevati dagli uomini … e si avvicinano spontaneamente a riva per farsi prendere, due a due, un maschio e una femmina. … Ve ne sono altri che hanno la forma di palafreni bellissimi o di muli e grassi come rombi … Altri hanno la forma di buoi e di asini e con questi arano, seminano, trascinano legna … Ve ne sono anche altri che hanno la forma di cani piccoli e grandi … Altri sono come sparvieri bellissimi o astori, falchi a forma di aironi …
T. I Bramani sono una moltitudine di uomini semplici che conduce una vita virtuosa. Non desiderano possedere più di quanto esige il bisogno naturale. Si accordano su tutto e tutto sopportano. … Sono santi che vivono col corpo. … Costoro servono la Maestà nostra solo con le preghiere … (Ibidem, D., § K-T) (3).

Né mancano i mirabilia animali, vegetali e minerali: vermi che possono vivere solo nel fuoco e draghi domestici, piante eternamente feconde e sempreverdi, ma soprattutto pietre dai mille poteri (in grado di guarire ogni malattia, di eli-minare l’odio, di “fabbricare” cibo e bevande miracolose, di procurare la pace, …) e dalle infinite virtù (la pietra che raffredda e quella che riscalda, la pietra che illumina e quella che arde spontaneamente, …).

Al centro del regno, invece, si collocano il palazzo reale, specchio del cosmo ordinato geometricamente, e il palazzo che protegge la fonte dell’eterna giovinezza; due residenze magiche e simboliche a un tempo, i cui elementi costruttivi e decorativi rispondono, punto per punto, a quella idea di “armonia” degli elementi che domina nell’immaginario medievale e che si conserverà per tutta l’età rinascimentale. Più simile al mago-demiurgo vagheggiato, qualche secolo dopo, dai neo-platonici fiorentini che all’uomo della provvidenza divina, il sovrano di questo fantastico Oriente assicura il trionfo del Bene e della Giustizia facendo ricorso alla magia delle forme e delle pietre. La sua reggia

… è a immagine e somiglianza del palazzo che l’apostolo Tommaso fece costruire per Gondoforo, re degli Indiani … I soffitti, come pure le travi e gli architravi, sono di legno di Ci-pro. Il tetto è di Ebano, così che per nessun motivo può prendere fuoco. … I portali … sono di sardonice frammista a corna di ceraste, per evitare che qualcuno possa introdursi di nascosto al suo interno con del veleno. … Benché qua e là, come decorazione, vi sia dell’onice, intorno a essa … vi sono quattro corniole, e questo affinché la loro virtù mitighi la forza nociva di quella … il nostro letto è di zaffiro per proteggere la castità … (Ibidem, § 56- 63) (4).

Ma ancora più straordinario è il secondo palazzo, nato da una visione avuta dal padre del Prete Gianni, vero Paradiso in terra, al cui interno non si conosce né fame, né infermità, né timore della morte, poiché chi beve l’acqua della magica fonte che vi è custodita, se avrà rispettato il rituale, vivrà eternamente giovane per “trecento anni e tre mesi e tre settimane e tre giorni e tre ore” :

B) 76. Possediamo un altro palazzo, superiore al primo non in lunghezza ma in altezza e bellezza … costruito solo con pietre preziose e con oro puro liquefatto … 88. La sua volta … è di zaffiri luminosissimi, mentre topazi molto splendenti sono inseriti qua e là … 89. … il pavimento è fatto con grandi tavole di cristallo … Nel palazzo non vi sono camere né altre suddivisioni. Cinquanta colonne d’oro purissimo, modellate a forma di guglie, sono disposte al suo interno, lungo le pareti. … 90. … sulla cima di ognuna di esse c’è un carbonchio grande come una grande anfora e il palazzo ne è illuminato allo stesso modo in cui il mondo è illuminato dal sole.
C) 94. Nel palazzo c’è una porta di cristallo purissimo e lucentissimo, contornata da oro massiccio, collocata sul lato orientale … (Ibidem, B., §76-90; C. § 94) (5).

E’ il sogno di un mondo utopico, o meglio di una società ideale in cui, sia pur se in posizione periferica, è concesso al mostruoso e al perturbante di continuare ad esistere, quasi che l’armonia non possa imporsi senza che si conservi parallelamente la presenza di quella insondabile “diversità” che solo la mente divina conosce e indirizza. In altri termini: al travaglio politico, economico e spirituale che lacera l’Occidente cristiano della metà del XII secolo l’estensore della Lettera offre l’alternativa di un regno fanta-politico, nuovo Paradiso terrestre, in cui i mostri contro natura (le creature nefande generate dal Male e potenzialmente destinate a servire l’Anticristo) sopravvivono come in un serraglio, dentro luoghi aridi o chiusi, comunque circoscritti, controllati: le regioni marginali del regno, i deserti, il cuore delle montagne, gli oceani, le isole.

Ma, come con ogni vaso di Pandora (l’immaginario appunto) che si rispetti, qualcosa sfugge sempre al controllo e viene a scompigliare l’ordine faticosa-mente raggiunto. Esorcizzati, i mostri teratologici abbandonano le vesti animali per indossare quelle ben più temibili dell’uomo, dell’estraneo, dello “straniero”. Ancora una volta l’immaginario si prende gioco del logos, proprio nel momento in cui gli concede spazio, in cui gli consente di omologare il fantastico al noto. Nasce allora, mentre i confini geografici si ristabiliscono e le culture si confrontano, l’Oriente della paura.

Assediata all’interno da nemici fin troppo visibili, l’Europa occidentale scopre che il “nemico” per eccellenza viene dall’Oriente: ebrei, musulmani, zingari e turchi si sostituiscono alle orde barbariche (anch’esse genericamente provenienti da Est) e vanno a rimpolpare quel calderone mefitico dei mostri umani che è il mondo dell’altro da sé. Eretici e idolatri per la Chiesa, questi esseri che sembrano uomini e che uomini non sono (si pensi alla ridondanza di caratteristiche animali negative loro attribuite: rapaci e feroci come lupi, vipere velenose, sparvieri malefici, uccelli da preda, scorpioni, rospi, ragni) diventano per la gente comune il volto funesto dell’Oriente, convogliando su di sé ataviche paure e desideri repressi (e si pensi a quel diverso per eccellenza che è la donna, la quale – se di origine orientale e dunque schiava – non deve assolutamente allattare i figli del padrone, che potrebbe contaminare col suo sangue ferino).

Estirparli significa, a livello di inconscio collettivo e individuale, estirpare la parte animale che è nell’uomo, soffocare i sogni di libertà, punire le fantasie della mente. Anche qui nulla di strano, che già dietro i mostri addomesticati del Prete Gianni trapelava la paura dell’altro, di ciò che appartiene a un universo diverso dal proprio.
Accettati finché relegati in lussureggianti paradisi terrestri circondati da mari e deserti sabbiosi, gli “stranieri” divengono sospetti e inquietanti quando varcano i confini del mito per entrare nella Storia e portarvi la novità, il cambia-mento. Sono portatori di morte, di malattie terribili e misteriose, contaminatori spietati in combutta con le forze del Male, cui bisogna opporsi con gli strumenti della storia e della cultura. Si accendono i roghi, si scatenano i progrom e la parola ordinatrice identifica, incasella e condanna chi ha osato aprire le porte del rimosso per affacciarsi sul palcoscenico della realtà conosciuta.

Lotta impari: stanati dai loro recessi, mentre il tempo umano si arresta e lo spazio si restringe, i mostri abbandonano la “città assediata” e salpano per nuovi lidi. Un altro Oriente li attende, al di là delle nebbie della realtà.

NOTE

1. Cfr. La lettera del Prete Gianni (versione latina; trad. a cura di Gioia Zaganelli), Pratiche Editrice, Parma, 1990. Tutte le citazioni sono state prese da questa edizione.
L’elencazione risponde perfettamente alla natura dei bestiari medievali, a loro volta calchi dei bestiari antichi; natura duplice, allegorica e moralizzante, che chiarisce anche il carattere intrinseco di ogni specie umana o animale citata, fatta eccezione per i casi di corruzione della parola originaria (greca o latina), quali la confusione (ancora vigente nella nostra lingua) fra il greco “monocolo”, “con una sola gamba”, e “monoculo”, “con un solo occhio”.

2. Si tratta di popoli identificati, nella cultura biblica e cristiana, come razze dannate, desti-nate ad essere annientate nei giorni dell’Apocalisse. Decisamente importante è sottolineare la sottesa chiave di lettura antisemita, propria della cultura propagandistica medievale: Gog e Magog (soprattutto, ma non solo) nella visione medievale corrispondono alle 12 tribù d’Israele e, dunque, confermano la coesistenza del meraviglioso “buono” e dell’alterità “malvagia”.

3. Il mito delle Amazzoni è indubbiamente uno dei miti più antichi e diffusi, così come costituisce una costante dell’immaginario di ogni tempo, pronta a riemergere ogni qualvolta l’uomo senta la necessità di popolare una propria “terra ignota”. Da qui la sua ubiquità: ora in Asia Minore, ora in Africa, in Oriente e, infine, in America meridionale (ai confini con la leggendaria terra dell’Eldorado). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una duplice natura per la quale l’elemento femminile (oggetto di profondi timori e quindi “deviante” e “maligno”) è ora dichiaratamente al servizio del Male (la donna che si serve dell’uomo – che poi uccide – per generare), ora “addomesticato” (la donna che concede al “marito” di vivere, ma lontano da lei).
Quanto ai pesci che si trasformano in animali, è un caso esemplare di espansione dell’immaginario ex similitudine: gli ippocampi, detti anche equi marini per loro forma superiore che ricorda il cavallo e quella inferiore a coda di pesce, autogenerano (sempre per similitudine) una fauna ambigua al servizio dell’uomo.

4. Il nostro anonimo segue alla lettera la tradizione dei lapidari medievali, in particolare quello di Marbodo, che elencavano le proprietà negative e le virtù delle singole pietre. Un esempio significativo ci è offerto, qui, dall’onice, pietra ritenuta nociva, portatrice di malat-tia e miserie, ma soprattutto capace di scatenare risse e atti sanguinari e quindi di attentare all’ordine cosmico e sociale.

5. Nel caso della “fonte dell’eterna giovinezza” vale il principio di ubiquità geografica e di continuità temporale segnalato sopra riguardo alle Amazzoni. Degna di nota è anche la fu-sione fra la biblica “acqua del risanamento” (cfr. Ezechiele) e il motivo popolare della fontana dell’eterna giovinezza, di volta in volta collocata geograficamente nelle nuove terre scoperte.