Il cavaliere di carta – la figura del cavaliere e l’ideologia cavalleresca in letteratura

Se vi fossero dubbi circa il fatto che la letteratura non è soltanto testimonianza e riflesso della società che la produce, ma altresì elaborazione ideologica dei valori e dei modelli di comportamento a cui quella stessa società si informa, basterebbe guardare alla vasta produzione epico-cavalleresca medievale e rinascimentale per fugarli.
In effetti, tra l’XI e il XIV sec., con prolungamenti fino al XVI, la chanson de geste – in tutte le sue varianti formali e strutturali – svolge un ruolo fondamentale nella codificazione di quel sistema etico della guerra che prende il nome di “cavalleria”. Si tratta di un’operazione di continua elaborazione ideologica assai complessa e per certi versi paradossale, visto che non soltanto privilegia la strada della riproposizione ab infinitum degli stessi eroi, ma prende anche origine dalla celebrazione di una “sconfitta”: il sacrificio mortale del paladino Rolando a Roncisvalle. Come giustamente osserva Franco Cardini:

“… La cavalleria nasce morta: appena nata, piange attorno al corpo inanimato di Rolando caduto a Roncisvalle. E piange attorno a un eroe caduto da tempo … la mitologia cavalleresca fa parte di un modo di intendere la storia che si rifà di continuo al tema del mundus senescens e della corruzione del presente, contro il quale s’invoca l’arrivo dell’eroe senza macchia e senza paura! …”

La fortuna storico-letteraria del paladino Rolando e del cavaliere cortese Perceval poggia, dunque, su un fondo di contraddizioni, di cui la principale è di certo la malcelata consapevolezza della fragilità, se non del fallimento, già ab origine, del modello cavalleresco, destinato a rimanere per lo più realizzato nella sfera ideale della parola (nel singolare circuito di oralità-scrittura-oralità) e non in quella concreta delle azioni umane.
Ed è una consapevolezza che traspare anche dalle pagine dei cronisti medievali, in particolare i cronisti o comunque i protagonisti-testimoni delle crociate, che continuamente affiancano ai rari esempi di autentico e sublime ethos cavalleresco la condanna dei “nuovi” cavalieri, uomini violenti e rapaci, mossi dallo spirito di guadagno o – al meglio – di avventura, così lontani dagli “antiqui” paladini, leali vassalli del re e, ancor più, “santi vassalli” di Dio. Ed ecco come primo esempio di questo sentire il ritratto-invettiva che San Bernardo, nel De laude novae militiae, disegna dei milites suoi contemporanei:

“Voi appesantite i vostri cavalli con tessuti di seta, coprite le vostre cotte di maglia con chissà quali stoffe, dipingete le vostre lance, i vostri scudi e le vostre selle, tempestate d’oro, d’argento e di pietre preziose i finimenti dei vostri cavalli. Vi adornate sontuosamente per la morte e correte alla vostra perdizione con una furia senza vergogna e un’isolenza sfrenata. Gli orpelli sono degni di un cavaliere o della vanità di una donna? Credete che le armi dei nemici temano l’oro, risparmino le gemme, non trapassino la seta? D’altronde, ci è stato spesso dimostrato che tre cose principali sono necessarie in battaglia: che il cavaliere sia pronto a difendersi, rapido in sella, sollecito nell’attacco. Ma voi, invece, vi acconciate come delle femmine, avvolgete i piedi in tuniche lunghe e larghe, nascondete le mani delicate e tenere in maniche ampie e svasate. E così infagottati vi battete per le cose più vane, come un corruccio ingiustificato, la brama di gloria o la cupidigia di beni temporali …”.

Ancora una testimonianza: nella chanson dedicata alla I crociata, la Conquête de Jérusalem, accanto alla figura del valoroso “miles Christi” Goffredo di Buglione (per inciso, l’unico capo o eroe crociato che riesce a insediarsi stabilmente nella letteratura, scivolando dalla chanson appena ricordata al poema del Tasso) compare quella efferata di Thomas de Marle, della cui brutalità è testimone lo storico Guiberto, abate di Nogent, qui celebrato come il primo cavaliere che riesce a scalare le mura e che dà inizio al massacro indiscriminato di musulmani, ebrei e cristiani d’Oriente, donne, bambini e vecchi. Certo, per la mentalità medievale il cavaliere che massacra i nemici di Dio, purché animato da sincero fervore religioso, non commette peccato; anzi, si comporta da perfetto cristiano, sempre per citare San Bernardo, che così assolve il “miles Christi”:

“… Invero i soldati di Cristo combattono tranquillamente le battaglie del loro Signore non temendo affatto di peccare quando uccidono i nemici, né di perdere la vita, in quanto la morte inferta e subita per Cristo non ha nullo di delittuoso; …”

Tuttavia, sia il poeta che lo storico rivelano un identico disagio nel “legittimare” comportamenti assai poco evangelici, che per altro il solito San Bernardo aveva riconosciuti “cristiani” con una certa difficoltà e in forza di una funambolica “monacazione forzata” del cavaliere.

“… vanno e vengono a un cenno del loro comandante; portano le vesti che egli dà loro, non cercando né altri abiti, né altro nutrimento. Evitano ogni eccesso nel cibo come nelle vesti, desiderano solo il necessario, vivono tutti insieme, senza donne, né bambini. E perché nulla manchi loro della perfezione angelica, vivono tutti sotto lo stesso tetto, senza possedere niente di personale …”

D’altra parte non si può non ricordare, almeno marginalmente, come proprio le Crociate costituiscano il momento cruciale della verifica dell’ideologia cavalleresca, volta a perpetuare l’origine laica dell’etica della guerra e del cavaliere, sia pur dissimulata sotto l’egida di una parziale sacralizzazione dell’universo militare. Infatti, non solo la crociata, con i suoi Ordini militari religiosi e i suoi “poveri cavalieri di Cristo”, informa dei suoi ideali la chanson de geste, i romanzi e i trattati del XII-XIII sec., ma diffonde nella cultura europea il progetto di una sorta di “mistica della cavalleria” destinata ad instaurare un sistema etico in cui i valori feudali di valore, misura e saggezza venivano ad acquisire nuovi significati spirituali. Tanto che persino papa Urbano II, per meglio perorare la causa crociata, portò in Concilio l’esempio di Carlo Magno e dei suoi paladini. Contemporaneamente, però, l’inevitabile inconciliabilità del piano ideale con quello reale fa sì che quello stesso sistema etico sfiorisca e degeneri in brevissimo tempo (già all’indomani della conquista della Città Santa, si po-trebbe dire) e proprio in quelle terre d’”Oltremare” che avrebbero dovuto strutturarsi come il perfetto “regno di Cristo” in terra.
Ancora una volta la letteratura ci assiste nella ricostruzione. Basta, infatti, dare una veloce scorsa alle chansons crociate per rendersi conto di come, proprio nel fervore della “guerra santa”, l’ideale cavalleresco trovi il suo compimento ambiguo; ovvero, la sua realizzazione e il suo esaurimento. Nei poeti-cavalieri che vivono l’avventura d’Oltremare, più ancora che nei cronisti, dietro alle loro repentine esaltazioni (e altrettanto repentine querimonie), emerge un comune sentimento di delusione e di smarrimento che travalica il mero dato oggettivo del rapido declino dei Regni cristiani d’Oriente e che scaturisce dalla consapevolezza amara dell’impraticabilità degli ideali cavallereschi. Né questo deve meravigliarci. Molti di essi, in Occidente, avevano coniugato la poesia con l’arte militare, l’ideale cortese con quello cavalleresco, la fede con la guerra, concorrendo attivamente al consolidamento, in chiave ancora precipuamente laica, dell’immagine-modello del cavaliere “perfetto”, connubio dell’innesto culturale-letterario del paladino di Carlo Magno e del cavaliere arturiano (l’uno modello di “fedeltà”, l’altro di “nobiltà e cortesia), di Rolando e di Yvain o Erec.
Molti di essi, poi, colpiti da quel risveglio della fede che spingeva moltitudini di uomini, donne, bambini a lasciare la propria casa e la terra natale per prendere la croce, avevano aderito con entusiasmo alle idealità crociate che rispondevano perfettamente ai propositi edificanti e ai sogni di rigenerazione spirituale della società, individuali e collettivi, che serpeggiavano nell’Europa del XII-XIII sec., facendo propria quell’immagine del “miles Christi” che le gerarchie ecclesiastiche, a partire dalla riforma di Gregorio VII, venivano delineando come reinterpretazione spiritualizzata del cavaliere feudale, vassallo sì del suo signore, ma prima di tutto vassallo di Dio e, possibilmente, “santo” guerriero.
Non solo. Sull’onda dell’entusiasmo suscitato da Bernardo di Chiaravalle con la sua teorizzazione di una vera e propria “mistica militare”, per la quale il tipico sodalizio militare veniva a confluire nel rigore spirituale della tradizione monastica dando vita a una “milizia divina” interamente dedita alla difesa dei poveri e della fede, alcuni di essi entrarono negli Ordini religiosi militari o, comunque, vi gravitarono attorno. E’ il caso di Ricaut Bononel (2° metà del XIII sec.), cavaliere templare, o di Rutebeuf, che nel Nuovo Compianto d’Oltremare esorta Guglielmo di Belgioco, maestro dell’ordine templare, a partire per la Terrasanta, a far rivivere le gesta dei “valorosi uomini d’un tempo / Goffredo, Boemondo e Tancredi”.
Una volta, però, giunti in Terrasanta, questi trovatori – al pari di altri sognatori – vi trovarono non l’auspicata societas Christi, ma una realtà politica divisa, corrotta, mossa dalle peggiori passioni. Scoprirono, insomma, che per molti l’iter ultramarinum non coincideva con una missione purificatrice e salvifica, bensì con una volgare guerra di rapina che spesso non rispettava neppure i fratelli cristiani d’Oriente.
Da qui, appunto, gli accenti – ora commossi, ora indignati – con cui lamentano la triste agonia degli ideali crociati o deprecano gli abusi e i peccati dei potenti, causa prima dei ricorrenti insuccessi; potenti fra cui spiccano per cupidigia di denaro e di potere anche i “poveri cavalieri di Cristo”, Ospitalieri, Templari, Teutonici che siano. Una breve campionatura è, qui, sufficiente a documentare il dramma interiore di quanti avevano creduto nel progetto di rigenerazione sociale e spirituale della “guerra santa”. Così si lamenta Rutebeuf nel Compianto d’Oltremare:

“… Ah, Antiochia, terra santa / Com’è doloroso il tuo pianto, / Non avendo tu più nessun Goffredo / Il fuoco della carità è freddo / In tutti i cuori cristiani; / Né giovani né anziani / Si preoccupano di combattere per Dio …”;

cui fa eco Lanfranco Cigala:

“ … Gerusalemme è un luogo derelitto / Sapete perché? Perché manca la pace …”.

Assenza di pace e sconfitte che così motivano Filippo di Nantevil:

“… E vi dico che se i templari / ci avessero aiutati, senza essere gelosi di noi, / possederemmo tutta la Siria, Gerusalemme e l’intero Egitto …”;

Elias Cairel (inizi del XIII sec.):

“… E a procurare il proprio danno sono ben addestrati / i conti e i re e i baroni e i marchesi / Che s’uccidono l’un l’altro facendosi guerra. / Così faranno perire la cristianità; / e dovrebbero piuttosto uccidere Turchi e pagani / e recuperare la città santa …”;

e il solito Rutebeuf:

“… Se essi operano litigando, / andrà tutto a rovescio. / Lì ci sono troppi uomini pieni d’orgoglio, / che provano invidia l’uno dell’altro. …”

Così, nella Terra Promessa, Gano finisce col trionfare su Rolando, Yvain ed Erec non imparano nulla e anzi finiscono col rinnegare i valori di nobiltà, cortesia e fin’ amors, Lacelot non si redime e con i suoi peccati coopera alla rovina del regno, mentre Parsifal si perde nelle nebbie dell’utopia.
Quale è il suo statuto primario, la letteratura si fa,dunque, portavoce, nel suo trascorrere, dei sogni e dei fallimenti dell’uomo. La ripresa sempre più rilevante, nel XIII-XIV sec., dei cicli carolingi ed arturiani è segno, appunto, di come i letterati del tempo vivono, interpretano e riscrivono l’ideologia cavalleresca, prendendo le mosse sempre dai modelli originari. Il ricomparire costante di Rolando, Lancelot e Parsifal non è sterile stereotipia, bensì adeguamento degli “antiqui” eroi alle mutate esigenze sociali, spirituali ed etiche.
Si prenda come esempio la Chanson de Roland, uno dei testi alle origini dell’ideale cavalleresco medievale. Nella versione più antica le gesta dei paladini di Carlo Magno sono funzionali alla costruzione di una nuova figura di cavaliere, aderente alla struttura sociale feudale. L’anonimo cantore riprende – come è noto – un evento storico dell’VIII sec., di cui con tutta evidenza si era tramandato oralmente il ricordo fino a trasformarlo in leggenda, e lo rielabora col preciso intento di fornire al suo pubblico una nuova, aggiornata costellazione di valori politici, religiosi e civili. In quanto testimone e interprete di una società – quella feudale appunto – che avverte la necessità di superare l’etica guerriera “barbara” attraverso una cristianizzazione anche della violenza militare o della semplice faida, egli recupera le ormai leggendarie gesta dei paladini alla luce di un sistema etico che accetta (e dunque può anche esaltare) la guerra come “positiva” e “buona”, in quanto lotta contro i nemici della vera fede, e che condanna l’orgoglio guerriero perché in esso è contenuto il germe della disgregazione della gerarchia sociale. Così, l’hybris di Rolando è identificata con il riemergere in lui del comportamento egotico, tipico del guerriero “arcaico”, che lo porta a dimenticare i suoi doveri verso l’imperatore e la collettività tutta, ad inseguire l’onore a discapito della vera gloria. In questo contesto il riscatto di Rolando può consistere soltanto in un sacrificio “santo”, ovvero la morte eroica combattendo contro gli infedeli, dal momento che solo attraverso questo gesto eccezionale (anche se a danno dei compagni) egli riesce a trasformarsi da eroe dell’onore a eroe della gloria, intendendo con quest’ultima definizione il “campione” (= paladino) di Dio e del re, colui che agisce mosso da ideali supremi, estranei alla sfera esclusivamente materiale e mondana dell’onore. Si comprende così la natura particolare della morte del campione di Carlo Magno; morte santificata dalla discesa degli angeli (rigorosamente guerrieri), inviati da Dio a sostenere e accompagnare l’anima del paladino verso la gloria celeste:

“… Orlando sente che tempo non n’ha più, / e verso Spagna giace in un monte acuto. / Con una mano il petto s’è battuto: /”Deus, mea culpa, tanta è la tua virtù, / pe’ miei peccati, i grandi ed i minuti, / che ci ho commessi dal dì che nato fui / sino a quest’ora che qui non vivo più”. / Il destro guanto verso Dio tende: a lui / calano allora gli angeli di lassù. … Il destro guanto a Dio egli distese; / San Gabriel dalla sua man lo prese. / Sopra il suo braccio e’ tiene il capo chino: / giunte le mani, è ito alla sua fine. / Dio gli mandò l’angelo Cherubino / e San Michel dal mare del periglio. / San Gabriele insieme a lor discese: / l’anima sua portando in Paradiso.” (Anonimo, Chanson de Roland, XII sec.).

Tale lettura simbolica del lontano dato storico si accentua nelle versioni successive coeve alle crociate, tanto che Rolando assume la veste del “santo guerriero”, diventando un’immagine di Cristo in armi. Salvo poi trasformarsi, tra il XIV e il XV sec., per influsso dell’ideologia mercantile che rigettava l’i-dea di cavalleria come istituzione e gruppo sociale, da eroe della fede a non-eroe impazzito per amore, quasi che la sconfitta in amore (patrimonio tematico della letteratura cortese) basti da sola a motivare l’hybris di Rolando, ma anche a punirlo (e non è un caso che tanto nel Boiardo quanto nell’Ariosto la morte del paladino sia extra-testuale, laddove nel Pulci risulta addirittura deformata dalla straniante ottica contestatrice del poeta), a estremo degrado di quella figura di cavaliere cristiano ormai irrecuperabile dal mondo cortigiano rinascimentale:

“ … Quello Orlando sono / che occise Almonte e il suo fratel Troiano; / Amor m’ha posto tutto in abandono, / e venir fammi in questo loco strano. … Tu fai col patre guerra a gran furore / Per prender suo paese e sua castella, / et io qua son condotto per amore / e per piacere a quella damisella. / Molte fiate son stato per onore / e per la fede mia sopra la sella; / or sol per conquistar la bella dama / faccio battaglia, et altro non ho brama. …” (Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato, parte I, canto XVIII);

e ancora:

“Fu gloriosa Bretagna la grande / Una stagion per l’arme e per l’amore / Onde ancora oggi il suo nome si spande / Sì che al re Artuse fa portare onore, / Quando i bon cavalieri a quelle bande / Mostravan in più battaglie il suo valore / Andando con le dame in avventura / Ed or sua fama al nostro tempo dura. / Re Carlo in Francia poi tenne gran corte, / Ma a quella prima non fu sembiante, / Benché assai fosse ancor robusto e forte / Ed avesse Ranaldo e il Sir d’Anglante. / Perché tenne ad Amor chiuse le porte / E sol si dette alle battaglie sante / Non fu di quel valore e quella estima / Qual fu quell’altra che io contava in prima.” (Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato, Libro II, canto XVIII).

In un certo senso, forzando gli accostamenti, si potrebbe vedere in questa morte extra-testuale il riflesso speculare di quella di Don Chisciotte, l’uscita di scena di un mondo meramente ideale già al suo nascere e come tale destinato a svanire tra i fumi dell’utopia e la polvere delle giostre-tornei:

“… ormai io non son più Don Chisciotte della Mancia, ma Alonso Chisciano, a cui gli esemplari costumi meritarono il nome di Buono. Ormai son nemico di Amadigi di Gaula e di tutta l’infinita caterva di quelli della sua stirpe; ormai mi sono odiose tutte le storie mondane della cavalleria errante; ormai conosco la mia stoltezza e il pericolo a cui mi esposi leggendole …” (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte).

Il soggiacere di Rolando alla forza della passione amorosa ci riporta all’altro filone letterario che concorre alla costruzione del sistema cavalleresco: i romanzi cortesi, legati alle avventure di re Artù e dei suoi cavalieri. Se nei cantari del ciclo carolingio l’ideale cavalleresco coincide con la preoccupazione di “addomesticare” gli interessi privati e l’idea stessa di guerra attraverso un percorso di spiritualizzazione e sacralizzazione delle gesta militari, nei romanzi arturiani sono l’amore e l’avventura – anche quella “santa” (e infatti si va alla ricerca del Graal, non si combatte contro gli infedeli per conquistarlo!) – ad agire come valori atti a consolidare l’equilibrio fra pubblico e privato e a riportare il guerriero in un sistema etico incentrato sulle tre virtù capitali dell’ideologia laica tardo-feudale: valore, saggezza, misura.
E tale proposito non si può sfuggire alla tentazione di cercare nella storia una presenza ideale che in certo qual senso possa rappresentare l’inverarsi del nuovo modello di cavaliere “nobile, saggio e misurato”, ma anche la sua definitiva uscita dalla storia: Federico II di Hohenstaufen. Il riferimento non è poi tanto peregrino o forzato, dal momento che in Federico storia, leggenda e letteratura si compenetrano profondamente, quasi a farne una figura sospesa fra due mondi, quello dell’agire e quello del sognare umano. Sul piano storico, indubbiamente, l’Hohenstaufen oscilla fra il modello cortese, con qualche suggestione orientale, del cavaliere e quello del politico accorto e realista, che poco concede agli ideali militari (per non dire ai travestimenti ideologici) del suo tempo. O per essere più precisi: nel “privato” della sua corte veste i panni di un re per così dire arturiano, primo nella caccia (trasfigurazione e addomesticamento del duello-torneo) e primo nel celebrare il codice erotico cortese, mentre nel “pubblico” va decisamente controcorrente sia per il suo esplicito perseguire la via dell’onore (sì che i valori etici sopra citati diventano i pilastri del suo essere “imperator”) quando i suoi avversari sventolano (più o meno ipocritamente) il vessillo della gloria, sia per il suo concepire la guerra come mera (anche se spiacevole) necessità politica cui ricorrere quando le trattative si arenano. Eccolo allora, una volta che è stato costretto a partecipare alla crociata, scandalizzare tutti – dal pontefice ai potenti d’Europa – con un comportamento indubbiamente scandaloso rispetto alla Weltanschauung dominante, preferendo alla “guerra santa” la trattativa con gli infedeli, senza ricevere o infliggere perdite umane. Mentre attorno a lui si applica ancora la morale diffusa da San Bernardo, che così risuona:

“… E’ pur vero che non si dovrebbero uccidere neppure i pagani, qualora ci fosse una maniera diversa per impedire loro di attentare o di opprimere i fedeli. Pertanto, almeno per ora, è meglio ucci-derli piuttosto che la verga dei peccatori si abbatta sul destino dei giusti, anche perché i giusti non protendano le loro mani verso il male. …” (Bernardo di Chiaravalle, Liber ad milites Templi. De laude novae militiae),

egli infrange con un’unica mossa tanto il modello del miles Christi, quanto quello dell’eroe della gloria, mettendo a nudo le contraddizioni di un sistema ideologico, spirituale e politico ormai in crisi.
Ma torniamo a quanto si osservava innanzi a proposito della mentalità laica tardo-feudale. I valori a cui essa s’informa si ritrovano in piena luce nell’opera di Chrétien de Troys, i cui eroi incarnano sempre il percorso educativo del cavaliere ideale, ovvero la sua ricerca di un equilibrio fra l’etica delle armi e quella dell’amore (inteso in senso ampio, come lealtà al signore e lealtà-omaggio alla dama), in vista di una definitiva e perfetta integrazione nella comunità. Come nelle chansons de geste, anche qui troviamo il bipolarismo conflittuale fra valori individuali e valori collettivi, ma in luogo del contrasto fra onore e gloria si impone l’opposizione fra istinto (le passioni individuali) e civiltà (l’acquisizione di un preciso codice collettivo, simbolicamente raffigurato dalla corte di Artù), sicché il modello proposto risulta essere di natura preminentemente laica, con una marginalizzazione della componente spirituale-religiosa, e la parola chiave è cortesia.
Significativo, a tale proposito, è il modo di presentare gli scontri fra cavalieri. Infatti, mentre nella chanson de geste dominano le scene di natura militare e lo scontro tra cavalieri si configura come duello santo, nei romanzi cortesi il modello del duello in torneo – ormai codificato e dunque epurato della violenza dei primitivi confronti fra guerrieri – viene esteso alla guerra, tanto che essa (nei rari casi in cui viene presentata e, tra l’altro, sempre in riferimento a un passato arcaico e barbarico) tende a configurarsi come uno sport nel quale il nobile cavaliere muore raramente, in genere per errore o per mano di ignobili soldati, di cavalieri felloni e a causa di mezzi estranei alla pratica militare “corretta”. Di solito, infatti, egli viene preso prigioniero e si riscatta, o pagando un tributo o portando a termine prove impostegli, di tipo iniziatico. L’universo in cui si muove e agisce è un mondo che ha concepito e realizzato la guerra e lo scontro in singolar tenzone come una sorta di “gioco”, con regole proprie tese a ristabilire sempre l’uguaglianza della situazione degli antagonisti, tanto che sulla morte di un eroe pesa sempre il sospetto del tradimento o di una hybris contaminante che minaccia l’armonia della comunità e che non può essere riscattata neppure con la conversione alla vita monastica.
Proprio quest’ultimo elemento costituisce il traite d’union con la soluzione mistica degli Ordini religiosi militari prefigurata da Parsifal, il cavaliere del Graal. L’evoluzione del racconto delle avventure di questo singolare e unico eroe testimonia senza ombra di dubbio il venir meno della fiducia negli ideali mondani della cavalleria cortese, ma anche l’inapplicabilità del modello crociato a una realtà ormai orientata verso valori pragmatici. Il destino di Parsifal è dunque il destino stesso della cavalleria medievale, “colpevole” nella storia di non essere riuscita a convogliare la violenza verso fini trascendentali e in vista dell’instaurazione del regno della pace. E forse non è casuale la tripartizione della sua vita, ché i tre percorsi esistenziali da lui percorsi sembrano adattarsi perfettamente alle tappe evolutive dell’ideologia cavalleresca. Così il viaggio dalla foresta alla corte della prima parte potrebbe corrispondere al passaggio dal guerriero “antiquo” al cavaliere feudale; il passaggio dalla corte alla foresta per tornare alla corte si allaccia all’iniziazione cortese che consente al cavaliere di risolvere i conflitti fra valori individuali e valori collettivi; il ritorno alla foresta viene a inscriversi nel quadro di un’idea della cavalleria che, per rimanere pura e fedele al proprio ethos, deve accettare l’impossibilità di reintegrarsi nella storia terrena e proiettarsi nella dimensione di un’utopia mistica “celeste”.
Utopia che è anche riflesso delle aspettative di rinnovamento spirituale e sociale che – proprio a partire dal XIII e per tutto il XIV sec. – trovano espressione nelle eresie, nelle manifestazioni mistiche e nella fondazione degli Ordini militari religiosi. E non a caso Parsifal, nella versione più tarda di Wolfram von Eschenbach, entra in contatto con i Templari, custodi della mistica pietra del Graal, sorgente di vita e di rigenerazione spirituale, fondatori di un Ordine che, ancor più rigidamente degli Ospitalieri e dei teutonici, era sorto dall’incontro-fusione tra il sodalizio militare e la regola monastica, ovvero dal quadruplice voto di guerra santa – castità – ubbidienza – povertà:

“Valorosi cavalieri hanno dimora nel castello di Montsalvage, dove si conserva il Graal. Sono i Templari, che vanno a cavalcare lontano, in cerca di avventure. Qualunque sia l’esito della loro bat-taglia, gloria o umiliazione, l’accettano con il cuore sereno, in espiazione dei loro peccati … tutto ciò di cui si cibano viene loro da una pietra preziosa che, nella sua essenza, è tutta purezza. … Questa pietra dona all’uomo un tale vigore che le sue ossa e la sua carne ritrovano immediatamente la giovinezza. Si chiama anche Graal. …” (Wolfram von Eschenbach, Parsifal)

Con lui il cavaliere travalica i confini dell’etica feudale e laica sostenuta da Rolando e Lancelot e così espressa dalla Dama del lago:

“… Ché le armi non sono state date loro senza motivo. Lo scudo che pende dal collo del cavaliere e lo difende sul davanti significa ch’egli deve interporsi tra la Santa Chiesa e chi l’assale … Allo stesso modo in cui il giaco lo veste e lo protegge da ogni parte, così egli deve coprire e circondare la Santa Chiesa … L’elmo è come la garitta da cui si sorvegliano i malfattori e i ladri della Santa Chiesa. La lancia, lunga in modo da ferire prima che colui che la porta possa essere raggiunto, significa ch’egli deve impedire ai malintenzionati di avvicinare la Santa Chiesa. E se la spada, la più nobile delle armi, è a doppio taglio, è perché essa con un taglio colpisce i nemici della fede, e con l’altro i ladri e gli as-sassini; ma la punta significa ubbidienza, ché tutte le genti devono obbedire al cavaliere; e nulla trafigge il cuore come ubbidire a dispetto del proprio cuore. Infine, il cavallo è il popolo, che deve sostenere il cavaliere e sopperire ai suoi bisogni, ed essere sotto di lui, e ch’egli deve menare al bene secondo il proprio intendimento. …” (Anonimo, Lancillotto in prosa, “Infanzia di Lancillotto del Lago”, prima metà del XIII sec.).

Il suo destino non è quello di morire per la fede e neppure quello di espiare le proprie colpe abbandonando l’armatura per il saio del penitente. Il fato ha stabilito per lui un’altra strada da percorrere, ben più difficile e disperata: introdurre nella storia, sulla terra, il sogno di una societas Christi universale in cui i bellatores, in virtù di un duro percorso di purificazione iniziatica, fanno propria l’etica monastica della pugna spiritualis e diventano i custodi angelicati dell’armonia mundi.
Ecco perché, per la tradizione medievale, Parsifal non muore, ma svapora fra le nebbie di una folle speranza. Chi entra nel regno di Utopia, infatti, si condanna a un’esistenza extra-temporale, perché perpetuo è negli uomini il bisogno di purezza, di verità, di giustizia. Parsifal è dunque, in un certo senso, un folle di Dio, ovvero colui che per ritrovare e riportare in terra il Divino si consegna al regime dell’eccesso ascetico e mistico. Il suo messaggio sarà idealmente raccolto dalla pulzella di Dio, Giovanna d’Arco, ché solo una donna poteva far suo, senza contraddizione interiore, il sogno di una “cavalleria mistica”. Ma con Giovanna l’”antiqua” militia Christi conosce il suo canto del cigno; una donna in armi, una donna che addirittura viene investita cavaliere, ne accoglie l’eredità. E’ il paradosso finale, una conclusione che mai il teorico di Chiaravalle avrebbe potuto immaginare, ma anche una morte che ha in sé il dramma di Rolando, senza la sacralizzazione compensatoria.
Muore Giovanna sul rogo e il fuoco, con lei, distrugge i fantasmi di un progetto etico ormai estraneo agli interessi e agli ideali della società “borghese”. Ma dalle ceneri, araba fenice, sfugge qualcosa: è il mito romantico della cavalleria e del cavaliere “senza macchia e senza paura”, con tutti i suoi travestimenti e travisamenti ideologici. Ma questa è una storia non più scritta nei cantari e nei romanzi cortesi.