I labirinti della ragione: per una storia dell’esclusione
“Dire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto”
(Heidegger, In cammino verso il linguaggio)
Come ha chiaramente messo in luce Colli, il mito greco del Labirinto e del Minotauro è la storia della lotta dell’uomo per conqui-stare e domare il linguaggio della follia, della “diversità”, ma an-che la denuncia di un fallimento: il fallimento di chi, come Teseo, con l’inganno e il tradimento (il filo di Arianna, metafora trasparente del logos ordinatore), penetra nel Labirinto e uccide la Bestia senza aver prima riconosciuto che il Labirinto e la Bestia sono dentro di lui, ovvero che coesistono logiche “altre”, egualmente portatrici di significato e di sapere.
Costruire una storia sociale e individuale della follia significa ap-punto questo: rinnegare Teseo per riuscire a penetrare e a uscire dal Labirinto senza uccidere o ridurre al silenzio l’altro da sé; ri-fiutare l’aiuto di Arianna per giungere a scoprire e salvare la fiammella dell’anima anche là dove sembra essere scomparsa ogni traccia del pensiero umano, accettando di penetrare e far proprie quelle logiche “altre” che comunemente sanciscono la di-versità e l’esclusione.
Occuparsi della follia significa pertanto occuparsi di quel nucleo oscuro, inafferrabile nelle sue polimorfe manifestazioni (la figura umano-bestiale del Minotauro), utilizzando sì la “parola” come strumento di conoscenza e di spiegazione, ma sempre con la con-sapevolezza che il comunicare non si esaurisce nel semplice lin-guaggio connotativo, ma vive in virtù di un’infinita molteplicità di linguaggi, così come la parola non è mera coincidenza di signifiato e significante, ma pluralità di significanti all’interno di un significato. Compito quanto mai difficile e doloroso, poiché nasconde in sé le insidie dello smarrimento e, dunque, la tentazione della rimozione, della fuga o della razionalizzazione forzata.
Basta considerare per un attimo la letteratura sulla follia per ren-dersi conto di quanto sia arduo parlare dei folli alla luce delle loro intenzioni e non alla luce di fattori esterni. I “medici”, infatti, nella quasi totalità dei casi, quando non si limitano a registrare le parole e i comportamenti del paziente in chiave di mera anamnesi clinica, tendono a decodificare e interpretare il linguaggio dei folli secondo la logica e la psico-logica dei “sani”, alterando così vistosamente il portato comunicativo del “malato”.
In realtà, i messaggi dei folli (scritti, disegni, gesti, vocalizza-zioni, silenzi) andrebbero affrontati come sistemi coerenti di co-municazione, ovvero come espressioni di una cultura altra (intendendo con ciò una diversa visione del mondo e della realtà), così come lo storico della cultura popolare legge i documenti a disposizione (graffiti, gerghi, cosmologie, sogni, etc.) utilizzando una metodologia “aperta” e multidisciplinare .
Per penetrare nei labirinti della ragione senza smarrirvisi occorre essere consapevoli del fatto che i folli non solo tentano sempre di spiegare a se stessi e agli altri il proprio comportamento utiliz-zando il linguaggio che sentono proprio, ma altresì ci propon-gono una visione del mondo che è speculare rispetto a quella ac-cettata e condivisa dalla società dei “sani”, utilizzando al con-tempo le ambiguità e i doppi valori che la contraddistinguono come cifre comunicative.
Di fatto, il linguaggio del folle contesta il discorso e le certezze dei “normali”, mette in discussione il principio che esistano ca-noni definitivi di verità e falsità, di realtà e illusione. Esso non è dunque, come troppo spesso è stato detto, manifestazione irra-zionale o balbettio insignificante, né è la romantica, cosciente ri-volta contro l’”ordine”. E’ piuttosto un codice comunicativo in cui il conferimento di senso non è dato dalI’assoluta univocità fra significato e significante, bensì dalla coesistenza di molteplici e apparentemente discordi piani comunicativi fra loro correlati in base ai principi dell’analogia e della similitudine.
Sono queste le testimonianze dirette che ci parlano della follia e dei folli; ma, accanto a esse, esiste anche il muto linguaggio degli spazi dell’isolamento, il palcoscenico doloroso dove giorno dopo giorno i corpi sono chiamati a narrare le loro povere storie di solitudine e di straniamento. E proprio a questi due momenti rivolgeremo la nostra attenzione.
1. La follia è comunicazione
Vi è, nelle pagine di quanti affrontano, in prima o terza persona, il mondo oscuro della follia, ricorrente lo smarrimento di chi, preso nelle maglie intricate di un labirinto, scopre con orrore non soltanto l’impossibilità di sfuggire al Nulla che tutto inghiotte e divora, ma altresì l’emergere di irrefrenabili pulsioni e di incoer-cibili paure. Da qui l’impulso a trasformare il malessere in codice comunicativo, in un linguaggio globale che si faccia portatore del naufragio dell’essere ma che non tradisca l’essenza stessa della parola. Accade al folle, sia pur con coscienza diversa, quanto accade al poeta quando si rivolge all’Altrove: si riconosce l’impotenza della parola comune a significare l’indicibile e si tenta di restituire alla parola il suo portato originario, nello sforzo prometeico di affermare il proprio “esser-ci” al mondo.
Certo il poeta, con Holderlin, può dichiarare: “Noi siamo un se-gno non significante / indolore, quasi abbiamo perduto / nell’esi-lio il linguaggio …” (Mnemosyne, 1-3). A1 poeta è concesso di denunciare il rischio/consapevolezza della perdita di significato da parte della parola “immagine” e il conseguente smarrimento dell’Io di fronte al silenzio di essa. Egli, infatti, può affidarsi ancora e nonostante tutto al Libro, a quella scrittura che è a un tempo memoria e perdizione, ritorno all’essenza originaria e abbandono alla potenza consolatoria del Verbum. E se in questo viaggio si perde, come è accaduto a Holderlin o a Campana, rimane comunque di lui quel “linguaggio essenziale” con cui ha tentato di ridare forma al Mondo e all’Io.
Diverso il destino del folle, che non conosce l’arte della parola e che però vive una identica condizione di scacco e, inconsapevol-mente, cerca di opporvisi con analoghe strategie comunicative, con una analoga ricostruzione del pensiero.
Come ha ben evidenziato Kurt Scheider, “… Chi è nella follia pensa; e pensa, anzi, come nessun altro: benché non con la logica degli altri. Chi è nella follia ha un diverso modo di pensare. Pensare significa originariamente questo: viaggiare, prendere una direzione … Sradicato, e solitario, è chi è nella follia in quanto egli è in cammino verso qualche altro luogo”.
Questo cammino verso l’altrove altro non è che un viaggio dolo-roso non solo verso gli abissi dell’io ma anche e soprattutto nella crisi del linguaggio. Nel contesto del “mondo della vita” psicotico proprio la crisi del linguaggio costituisce l’esperienza fenomenologica ed esistenziale primaria. Un’esperienza devastante che può spingersi fino al limite della solitudine autistica, della stupefazione catatonica, della dissociazione e del silenzio. Non ci soffermeremo, in questo contesto, sull’analisi tecnica delle diverse forme di destrutturazione-ricomposizione “altra” del linguaggio; ciò che ci preme sottolineare è invece la condizione particolare del rapporto che lo psicotico instaura con il linguaggio.
Se è vero, come è incontestabile, che la crisi del linguaggio coin-cide con la crisi della comunicazione con il mondo dell’intersog-gettività e della realtà cosale, è altrettanto vero che essa dà luogo a una metamorfosi della comunicazione stessa che investe le fon-damenta semantiche del linguaggio comune. In altre parole: nel-l’esperienza psicotica il linguaggio tende a destituirsi della “nor-male” funzione comunicativa e si traduce in apparente autonomizzazione semantica, tanto che le parole sembrano essere meri significanti in cerca di un impossibile referente. Questo processo, che molto spesso si configura della forma di una “cascata” di parole (si hanno sequenze spezzate nella loro costituzione formale che tuttavia conservano una finalità, da individuarsi in relazione all’ambiente o alla natura dell’interlocutore), non è manifestazione di una intersoggettività assolutamente isolata, di un’interruzione del confronto con il mondo fuori da sé, bensì è l’espressione radicale di una sfida intenzionale che passa attraverso la contestazione del linguaggio. Il discorso si trasmuta cosi in una continua stratificazione di rimandi che acquistano un significato proprio dai processi congiunti di disarticolazione, di assonanza, di contrapposizione, di dissolvenza, di discontinuità, quando non addirittura di trasformazione della parola-frase in mera ritmica.
Non solo. La crisi del linguaggio comune coinvolge anche radi-calmente il campo dei significati che, nell’esperienza psicotica (come, per altro, in poesia), finisce con l’essere esteso oltre misura. Ne deriva la dissoluzione di ogni possibile articolazione lo-gica gerarchica dei significati, cui si viene a sostituire un’area se-mantica in cui tutti i significati coesistono contemporaneamente, relazionandosi in base ai principi dell’analogia e della similitu-dine. Ciò significa che le cose esistono e significano al di là e al di fuori delle aree semantiche abituali, sicché acquisteranno il loro corretto potenziale comunicativo solo nel momento in cui l’interlocutore accetta di entrare e di praticare la logica “altra” che gli viene proposta, fosse anche quella del silenzio. Solo accettando questo presupposto – l’assoluta libertà della parola rispetto al referente – è possibile accostarsi al linguaggio psicotico, comprendere il senso (non il significato, che è dato da rigorose correlazioni sistemiche fra parola e referente), comunicare.
E’ questo il compito, indubbiamente difficile e quasi stregonico, che spetta a chi voglia veramente confrontarsi con l’universo della follia, con l’avvertenza che comunicare è un qualcosa che travalica il corrente significato conferito a “curare”, un qualcosa che ha a che fare con il significato antico di “cura”: ovvero, “aver cura” dell’altro, partecipare al pensiero e alla vita dell’altro.
2. Gli spazi dell’esclusione
Ciò che traumatizza gli “osservatori” della follia non è tanto l’esplosione della “bestia” che si nasconde nell’uomo, quanto il carico di insubordinazione alla logica comune che essa manifesta. La follia, dunque, nell’immaginario collettivo, è soprattutto questo: una presenza misteriosa e sfuggente che minaccia l’ordine della realtà contingente, aprendo la strada a tutto ciò che è fuori della norma, a ciò che perennemente è da riconquistare e fissare perché sempre muta e sempre di mantiene inafferrabile.
Quando cadono le ultime barriere della ragione e la diffidenza verso l’altro da sé assume forme patologiche, è normale convo-gliare le accuse e i sospetti su quanti vivono ai margini della società, sui “diversi” e i “malati”, ovvero su coloro che minacciano con i loro comportamenti
asociali l’integrità della comunità stessa.
Mal tollerati in tempi di normalità, i devianti diventano nell’infuriare delle contraddizioni sociali e morali i capri espiatori di un malessere che non ha più nulla di contingente ma che presenta tutti i tratti della negatività metafisica, tanto più che spesso in questi potenziali contaminatori non è difficile scoprire i “sani”, se per “salute” si intende il miracoloso rispetto della propria individualità, al di là delle maschere che il quotidiano impone. Forse è proprio per questo esistere sotto la maschera e indipendentemente da essa che il folle, più di ogni altro diverso, ingenera nell’uomo “sano” un profondo sentimento di disagio e di terrore. Né potrebbe essere altrimenti, che dietro i suoi farneticamenti e la sua gestualità scomposta si manifesta la scoperta, scandalosa e intollerabile, della presenza “naturale” del Male nell’uomo; la rivelazione di quella oscura malattia dell’essere, che può spingere l’uomo alla distruzione ma che può anche far riemergere in una comunità assopita nel rassicurante torpore della quotidianità e della normalità il germe sacro del rimosso, del divino che è nell’uomo.
Ecco allora che le stagioni della follia ci si presentano come una sorta di teatro vivente dove si consuma il dramma della solitudine esistenziale dell’uomo. Ne è palcoscenico il manicomio, quel microcosmo infernale in cui si istituzionalizza la de-socializzazione dell’individuo; ne sono attori e autori a un tempo i malati abbandonati a se stessi in un universo irriconoscibile ove i consueti rapporti umani risultano rovesciati o annullati.
Qui, in una devastata geografia urbana ed umana, il tempo si raggruma e tende ad assolutizzarsi. Qui, il disordine sociale e morale rispecchia i frantumi di un’identità impaurita che non tollera lo scandalo della “sragione”, mentre gli eventi, le minime storie individuali, diventano gli atti tragici del dramma collettivo dell’umanità. Sotto i colpi ciechi della mania, Eros e Thanatos irrompono sulla scena e affidano al linguaggio del corpo e dei sensi (non più alla parola, che ormai ha esaurito nella disgregazione di ogni nesso logico la sua capacità di conferire senso alla sofferenza) il difficile compito di esprimere i sussulti angosciosi della coscienza, il silenzio lancinante della vita.
Teatro dell’eccesso e dunque spazio sacro e aleatorio in cui si in-contra l’altro da sé, il manicomio impone al “sano” I’esperienza indecente della passiva contemplazione dello smarrimento infernale altrui.
Inerme, l’uomo si trova a vivere l’anonima sofferenza dell’altro da sé, si riconosce in colui che in silenzio fugge dalla vita, muore con l’altro per morire a se stesso e diventare “colui che resta”, colui che accetta di testimoniare fino in fondo, rinunciando alle facili consolazioni della fede e della scienza, l’assurdità del vivere nella speranza di sottrarre l’uomo al nihil che lo circonda.
Spettacolo indecente, a cui pochi possono reggere e che fa scattare immediato il bisogno del contenimento, dell’isolamento, per-ché la contemplazione dell’uomo-bestia, di quello strano essere in cui la ragione sembra essersi ridotta a una vaga ombra lontana e non più raggiungibile, comporta un rispecchiarsi, un riconoscersi, un viaggio forse senza ritorno.
Diceva Pascal: “Io posso immaginare un uomo senza mani, piedi, testa … Ma non posso concepire l’uomo senza pensiero: sarebbe una pietra o un bruto”. Infelice arroganza di una stagione del pensiero occidentale che concepisce quasi meccanicisticamente il pensiero come pura razionalità e che allontana da sé le sopravvivenze del pensiero simbolico. Così, per secoli, questo tragico equivoco ha gravato sul mondo marginale ed emarginato dei folli, condizionando contemporaneamente intellettuali, artisti e strutture sociali. Persa l’antica identità sacrale dell’invasato, del posseduto dal daimon, il folle ha finito col trasformarsi in una sorta di mostro, di animale dal corpo umano, incapace di “pensare” e dunque di comunicare.
Di questa concezione ce ne dà testimonianza immediata l’icono-grafia che di frequente si è soffermata, talvolta con intenzioni meramente simboliche, più spesso con morboso moralismo, sul topos del folle come uomo nudo e degradato alla mera fisicità, immerso nel torpore crepuscolare del “sonno della ragione”. A tale proposito è sufficiente portare un solo esempio: quello di Francisco Goya. Il grande pittore spagnolo nel notissimo Cortile dei folli rappresenta la follia come brutale brulichio di carne che si disperde nel vuoto, scomposto agitarsi osceno di nudità oltraggiate dal peso delle catene e dai colpi della frusta fra mura spoglie. In questo carcere sotterraneo (felice intuizione dell’artista, dal momento che la follia è strettamente imparentata con le oscure forze ctonie, con le divinità degli abissi e della Notte), appena illuminato da lame di luce che sottolineano l’animalità muscolare dei corpi e rimandano metaforicamente al sopravvivere di fragili intermittenze del pensiero, il delirio grottesco dei volti (in particolare quello del “re dei folli”) si traduce in una inquietante riduzione al grado zero dei tratti somatici, immersi e annullati nel gioco esasperato dei chiaro-scuri.
Tale processo di annullamento dell’umano e di sopravanzare del ferino si accentua ed esaspera in altre opere del Goya, dove i volti perdono ogni traccia di identità umana, con una riduzione degli occhi e della bocca e nere macchie aperte sul vuoto. Grazie a questa assoluta negazione dell’umano, in La follia furiosa, Mar-got la Pazza e il celebre Sonno della ragione, la follia (ovvero la perdita della ratio; e poco importa, in questo contesto, la metafora storica ed esistenziale sottesa) si impone come ritorno a uno stato di natura artefatto e blasfemo, generato dalla colpa morale che degrada l’uomo a ripugnante bestialità.
La colpa morale: ecco l’accusa sottesa al processo di conteni-mento dei folli. Inutile allora parlare della paradossale “libertà nell’internamento”, della discesa nel “non-essere al mondo dei sani” per essere se stessi, del divenire alienati (nel senso antico di “stranieri a se stessi”) per recuperare l’originaria innocenza del-l’Essere originario. Sono, queste, interpretazioni che valgono per il mondo dell’arte, per quanti hanno percorso le strade della Sragione alla ricerca consapevole di una conoscenza “altra”, per chi, insomma, aveva comprato anche il biglietto di ritorno. Per l’immaginario collettivo, per l’uomo “normale”, la follia rimane in-vece sempre lo scandalo pascaliano dell’”uomo senza pensiero”, dell’animalità ferina grottescamente mascherata da uomo.
Ancora una volta ci troviamo a insistere su questo terrore per l’uomo ridotto a bestia: terrore che impronta e disegna l’architettura dell’esclusione. Ne faremo una brevissima storia.
A partire dal XVIII secolo, in coincidenza col diffondersi delle teorie illuministiche, l’architettura manicomiale acquista nuovi elementi che l’assimilano sempre più a una tipologia a dir poco singolare: quella del carcere-serraglio. Se l’aurea età dell’Umanesimo aveva ancora lasciato al folle la discutibile dignità del malato, relegandolo nell’inferno degli Ospedali degli Incurabili, mescolato a sifilitici, malati cronici, vagabondi e altra varia umanità sofferente, la “luminosa” età della ragione trasforma il manicomio in un putrido serraglio, aperto alla curiosità morbosa dei filosofi illuminati o, più banalmente, dei borghesi benpensanti. Rinchiusi in stanzoni nudi, gettati su giacigli di paglia resi putridi dai loro stessi escrementi, da dietro le sbarre che demarcano lo spazio teatralizzato di un corridoio-platea, i folli esibiscono impudicamente le loro offese nudità davanti agli sguardi dei curiosi, quando non si trovano costretti a recitare la parte di animali feroci, ora legati con catene ai muri, ora tenuti a bada da erculei custodi-domatori, esempi eclatanti di una fisicità meramente animale che consente condizioni di sopravvivenza precluse ai “sani” e ai “savi” (è qui che nasce il mito, assolutamente infondato, dell’immunità alle malattie e della quasi prodigiosa resistenza alle intemperie dei folli).
Questi due veloci esempi, il manicomio-ospedale e il manicomio-serraglio, sono sufficienti a evidenziare come l’architettura manicomiale sia, nei diversi momenti storici, la summa emblematica di tutte le strutture fisiche dell’internamento e dell’esclusione con cui una collettività tende a isolare e reprimere il potenziale nemico interno. Al pari del lebbroso e dell’appestato, del criminale e del mendicante, dell’ebreo e della strega, il folle è a un tempo responsabile e capro espiatorio dei drammi e delle catastrofi che vengono a minacciare l’ordine e la sopravvivenza di una comunità.
Non è casuale, pertanto, che il manicomio diventi – attraverso le sue varianti tipologiche e le sue differenti collocazioni urbanistiche, la metafora tangibile dell’idea di “follia”. Se inizialmente, infatti, esso coesiste e addirittura convive con gli Ospedali degli Incurabili, ricovero “aperto” per quanti recano i segni del “male di vivere”, ben presto si modella sugli esempi congiunti del lazzaretto e del carcere, proponendosi come strumento di isolamento cautelativo e di repressione, fortezza inespugnabile in cui la collettività seppellisce in vita (ma senza più il rito sacrale che accompagnava la reclusione del lebbroso) i propri membri divenuti pericolosi e fonte di scandalo. In questo recetto di scomodi e di indesiderabili finiscono indistintamente oppositori politici, libertini, mendicanti, parenti incomodi, vagabondi, criminali comuni, insensati, poveri idioti: tutti bollati come folli, tutti accomunati dallo stesso destino di degradazione bestiale.
E’ il passaggio, di cui sono stati testimoni ormai obliati gli umidi stanzoni e le nude cellette soffocanti che talora recano ancora di-segni, frasi, date, cifre, a peritura memoria di quanti hanno tentato si sfuggire al silenzio della sragione, alla follia intesa come peccato-malattia (riscattabile attraverso la purificazione-cura dell’anima), alla follia concepita come “congiura” contro il mondo dei “normali” a cui si può replicare soltanto con la repressione e il silenzio.
Né il quadro muta, a partire dalla fine del XIX secolo, con la nascita di scienze “positive” come la psichiatria, la sociologia, la criminologia, la psicanalisi stessa. Infatti, l’affermarsi dell’idea della follia come mera patologia, ovvero come risposta a uno squilibrio organico, a un condizionamento sociale/ambientale o a un trauma affettivo, non abbatte le barriere dell’isolamento. L’apertura degli spazi fisici dell’isolamento ha finito col mascherare subdolamente, dietro le parvenze “democratiche” di asettiche strutture mutualistiche di recupero o di utopici quartierini per “malati di mente” inseriti nel contesto urbano, quelle barriere fisiche che si era proposta di abbattere. Liberato fisicamente da quell’internamento che, almeno, lo sottraeva al rifiuto e all’indifferenza dei “normali”, il folle oggi è condannato a una prigionia e a un isolamento ben più dolorosi: le catene invisibili dei farmaci e la solitudine fra gli altri. Da tangibile (e dunque denunciabile) espressione dell’esclusione e della criminalizzazione del diverso e dell’alienato, il manicomio si è trasformato in un carcere metafisico, sicché paradossalmente il folle è oggi completamente libero e assolutamente escluso della libertà. Imbarcato a sua insaputa su una stultifera navis invisibile, egli si trova coinvolto in un viaggio infinito e senza ritorno. Prigioniero di se stesso, ma “libero” per gli altri, è condannato al nomadismo di chi non sa da quale terra provenga né sa a quale porto approderà, se approderà. Come sempre, il paradosso condanna chi è chiamato a scioglierlo alla sconfitta, senza neppure lasciargli la libertà di rimanere al di fuori del paradosso stesso.
Ma forse, a liberare il folle dal paradosso della “non libertà nella libertà” basterebbe restituirlo al diritto di comunicare, dare final-mente dignità al linguaggio che egli si costruisce, caso per caso, momento per momento. Basterebbe poco: ascoltare i suoi gesti, i suoi silenzi, contemplare le sue parole.