1516 Il primo ghetto
Recensione del libro di FRANCESCO JORI , “1516 Il primo ghetto – Storia e storie degli Ebrei Veneziani”, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, giugno 2016, pagg. 1-263 con Presentazione dell’A. e Introduzione di Enzo Pace. Con fotografie e incisioni.
I cultori del diritto costituzionale insegnano che tre sono gli elementi costitutivi dello Stato : un popolo; un territorio; la sovranità.
Come era aduso ripetere Heidegger, gli ebrei non costituiscono uno Stato in quanto privi di un territorio. Gli ebrei, infatti, risiedono abitualmente in casa d’altri.
La necessità di restare uniti, e fra di loro solidali, li rende impermeabili alle influenze esterne, né, d’altro canto, sono aperti agli influssi altrui.
Ambedue le circostanze rendono perciò la convivenza abitualmente difficile e problematica. Com’è inevitabile.
La paura del diverso spinge poi le comunità più numerose allo scontro con un risultato facilmente immaginabile. Tutte le grandi potenze si indirizzano, infatti, verso l’espulsione degli ebrei dai loro rispettivi Stati. Inizia l’Inghilterra nel 1290. Seguono la Francia nel 1306, la Spagna nel 1492, il Portogallo nel 1497.
Anche nella Repubblica di Venezia non manca il partito oltranzista che pretende l’espulsione.
Il senso pratico delle Serenissima elabora, invece, una soluzione diversa, assolutamente originale, a dimostrazione che l’arte di governo è pure invenzione e fantasia.
Anziché assecondare gli estremisti, ma, al tempo stesso, con l’accortezza di adottare una misura tale da assicurare la pubblica opinione, a Venezia, si lasciano vivere gli ebrei, ma li si relegano in un quartiere specifico loro assegnato.
Si crea, così, l’istituto del ghetto.</span
Il che avviene con l’ordinanza del Senato della Serenissima emanata il 29 marzo del 1516 “Per obviar a tanti disordini et inconvenienti”: misura che diviene poi operativa soltanto la mattina del successivo venerdì 11 aprile.
Il libro, segnalato all’attenzione dei curiosi lettori, ha rinvenuto probabilmente il primo motivo della sua stesura nella celebrazione del cinquecentesimo anniversario della nascita di quello che è stato il primo ghetto della storia. Un esempio che ha poi fatto scuola nel senso che è stato assunto a modello pure da altri Stati, Chiesa compresa.
Spazio di segregazione e di persecuzione, il ghetto è stato realizzato in un’area di una vecchia fonderia dismessa da tempo.
Donde il nome di ghetto da getto; ma c’è, pure, chi, nella parola ghetto, vede, invece, riflesso il termine ebraico “ghet”, che significa divorzio, spazio di separazione dalla società cristiana.
Il ghetto è una scelta di compromesso, che fa cessare oltre due secoli di libera presenza ebraica a Venezia.
Anziché acconsentire agli estremisti, il che avrebbe comportato un sempre impopolare inasprimento della pressione fiscale, si preferì saziare le sempre assetate casse dello Stato con un insediamento che arreca vantaggi economici consistenti.
Com’è pacificamente riconosciuto da tutti i più autorevoli storici e cronisti dell’epoca, gli ebrei venivano infatti tollerati soltanto per la funzione assieme finanziaria e sociale svolta nella città.
I banchi di pegno, mentre assicurano alla Serenissima capitali sempre freschi a un tasso di interesse controllato, svolgevano, infatti, nel contempo, una funzione sociale specialmente nei confronti dei più poveri, che non avrebbero avuto alcuna altra fonte per ricorrere a prestiti a buon mercato.
L’area prescelta per la realizzazione del ghetto, dopo la chiusura della attività di fonderia, è sostanzialmente degradata. Nella stessa si trovano pochi immobili, per di più, quasi tutti fatiscenti, dei quali sono proprietari solo pochi cristiani.
La Serenissima li convince a metterli a disposizione delle famiglie ebraiche, che, fino ad allora, avevano risieduto, invece, nel centro di Venezia, imponendo ai nuovi inquilini ebrei un canone maggiorato di un terzo rispetto a quello in precedenza riscosso (pag.132). In soprannumero si dispone che i canoni percetti dai proprietari siano esentasse.
La comunità ebraica si renderà inoltre garante del regolare versamento del canone (ivi). Ilbusiness diventa così allettante per i veneziani.
Venezia, a questa stregua, si garantisce, pertanto il trasferimento dei colpiti nelle poche e malconce dimore, che, aumentando il numero degli abitanti, verranno via via frazionate per assicurare ulteriori affitti e nuove tasse alla Serenissima !
Il sovraffollamento creerà un livello di promiscuità e igiene quasi inaccettabile, che non verrà meno neppure quando si realizzerà una espansione edilizia in verticale. Le case arriveranno fino a sette piani mutando il panorama della città. Fenomeno che si realizza in circa cento anni. Dopo un secolo, le settecento persone, che abitavano inizialmente il ghetto, erano infatti diventate quasi cinquemila.
Chiuse le porte a fine giornata, sotto la vigilanza occhiuta di guardie (….pagate dagli ebrei !), non è più consentito ad alcuno di uscire, fatta eccezione ai medici – molto apprezzati per la loro professionalità – se non in caso si comprovata urgenza.
Ai componenti la comunità ebraica viene imposto un odioso segno di riconoscimento : il berretto giallo che più tardi diverrà rosso.
Gli ebrei – come risulta da una testimonianza autorevole (pag. 121) – vengono comunque trattati “con molta cortesia e clemenza”.
Il ghetto, secondo la felice definizione dello storico ebreo di origine canadese Bernard Dov Cooperman, è “una piccola metropoli delle diversità” (pag. 123).
In uno spazio angusto, convivono, infatti, diverse etnie. All’originario ramo tedesco ashkenazita, nel giro di pochi decenni, si aggiungono i levantini (espulsi dalla Spagna e dal Portogallo) e i ponentini sefarditi e pure gli slavi e i polacchi.
La lingua praticata correntemente è, però, l’italiano, anche se non è ignoto un dialetto giudaico-italiano.
In una affollata convivenza, si registrano negozi e magazzini, dove si pratica un’intensa attività commerciale.
Il mestiere più frequente è quello del rigattiere.
Ben presto prende infatti piede la c.d. “strazzaria”, ossia il commercio di abiti usati. Il divieto di trattare il “nuovo” – imposto per evitare la sollevazione degli operatori veneziani del settore – viene comunque facilmente aggirato immettendo, nelle confezioni realizzate dagli ebrei, piccolissime macchie, per potersi così discolpare se qualche querela fosse mai pervenuta alla autorità che aveva concesso la patente, ovviamente, dietro un consistente prestito.
Conviene rimarcare che le botteghe da rigattiere, esattamente come i banchi di pegno, adempivano una funzione sociale, garantendo, ai meno abbienti, e, soprattutto, ai non pochi poveri, di vestirsi con gli abiti scartati dai benestanti.
Per quanto possa apparire incredibile, una notevole parte della economia del ghetto, è data, però, dal commercio marittimo, al quale gli ebrei veneziani si dedicano con successo.
La meta previlegiata dei traffici è, ovviamente, il Levante, dal Cairo a Costantinopoli, da Salonicco a Smirne, anche se l’import-export spazia poi da Amburgo ad Amsterdam, da Londra a Cracovia, da Vienna a Lipsia (pagg.135-136).
E’ interessante notare che molti ebrei, in tema di affari, diventano veri e propri consulenti dei nobili veneziani tanto da avere accesso “in molti palazzi del Canal Grande senza bisogno di disturbare il portiere” (pag.136 cit.).
Nel ghetto si studia. Non solo nelle case. Per l’ebreo, per quanto di umile condizione, era “assolutamente inconcepibile lasciare i figlioli senza istruzione” (pag.149). Ma pure nelle sinagoghe, definite “scuole” proprio per accentuare il loro ruolo educativo, oltre che, ovviamente, quello spirituale.
La cultura finisce così per diventare il collante di tutta la comunità (pag.147).
Il che poi spiega la ragione per la quale Venezia è “diventata rapidamente la vera e propria capitale mondiale dell’editoria ebraica” (pag.157), non solo per quantità – a Venezia, nella prima parte del Cinquecento, si stampa la metà di tutti i libri pubblicati in Europa – ma anche per l’alta qualità della produzione.
Dal quale ultimo profilo basta considerare che, ancora oggi, dopo ben quattro secoli, le edizioni del Talmud continuano a seguire la tradizione inaugurata dallo stampatore Bomberg, che apre la sua tipografia nel 1571 (pag.158-159).
Attorno a queste botteghe si crea così una moltitudine di intellettuali che diventa un polo importante per la cultura europea e non.
Al riguardo basta considerare che la prima copia al mondo del Corano stampata in arabo è uscita da un torchio in laguna. L’opera, ritenuta per secoli dispersa, se non addirittura inventata, è stata ritrovata nel 1987. Oggi si trova nella biblioteca francescana dell’Isola di San Michele (pag.155).
Al tema dell’industria del libro e agli stampatori, è dedicato l’intero capitolo VII, di una lettura sicuramente affascinante. Pure perché, accanto alle decine e decine di botteghe librarie, che avevano in Venezia una concentrazione ineguagliata in Europa, sfilano le figure degli stampatori, primo fra tutti, Aldo Manuzio, definito, non a caso, “il Michelangelo dei libri”.
Genio assoluto, fu innovatore. A lui si deve l’invenzione del punto e virgola e l’adozione del formato in ottavo, che rende il libro molto più maneggevole e meno costoso, divenuto, così, il prototipo degli odierni tascabili.
Sempre a Manuzio si deve “l’introduzione del corsivo” (pag.156) utilizzando, all’uopo, caratteri disegnati – ma questo l’A. non lo dice – e la lacuna ci sembra grave – da Francesco Griffo da Bologna, fonditore e incisore di caratteri – oggi diremmo font – anche greci, molto più complicati da realizzare rispetto a quelli latini, che daranno poi il via alla produzione di testi in lingua originale.
L’introduzione del corsivo – introdotta, per la prima volta, nelle Epistole di Santa Caterina da Siena – fu, comunque, una autentica rivoluzione che sopravvive ancora oggi in tutto il mondo.
Anche se si è poi persa la memoria – anche da parte del Nostro – di quel geniale autore cesellatore. Forse anche a causa della sua triste fine terrena conclusasi con un cappio al collo per avere ucciso, al termine di un violento litigio, il genero colpito a morte con una spranga.
Il sodalizio di Francesco Griffo da Bologna con Aldo Manuzio si rompe drammaticamente, come conviene ricordare e precisare, quando nel 1502 Manuzio ottiene dal Doge il privilegio per l’uso esclusivo di tutti i caratteri di Francesco per dieci anni.
E’ questo il periodo di maggior successo per Manuzio che annovera, fra i propri clienti, Federico Gonzaga, Isabella d’Este, Papa Leone X, Lucrezia Borgia, legandosi di amicizia con intellettuali prestigiosi come Erasmo da Rotterdam e Pietro Bembo.
A quel geniale artista, in grado di inventare le forme delle lettere più belle, che risponde al nome di Francesco Griffo da Bologna, protagonista assoluto dell’arte tipografica, si deve, comunque, l’ascesa di Venezia a capitale mondiale incontrastata della nuova edizione a stampa, anche della editoria ebraica, come si è dianzi rammentato.
La lettura rinviene così un ulteriore motivo di interesse perché quelle qui richiamate sono pagine dense di notizie e pure di roghi inutilmente accesi per cancellare dalla memoria migliaia di testi ebraici, ancor oggi, invece, vivi, oltre che parte integrante della storia della umanità (su quest’ultimo argomento e, soprattutto, sulla assoluta inutilità dei roghi, ci permettiamo rinviare al nostro “Sui roghi dei libri” che può leggersi nella Rivista ufficiale dell’Obbedienza “Officinae” del Dicembre 2014).
La costituzione del ghetto, così brulicante di vita, finisce sicuramente per perpetuare la solidarietà del gruppo, rafforzandone i legami culturali e religiosi.
Si instaura così anche una autonomia che si concretizza a tutti i livelli (educativo, giuridico, amministrativo, sociale e sanitario).
Ciò che comporta, però, un ripiegamento su se stessi : rischio che corrono tutte le minoranze.
Nonostante la separatezza, e il vergognoso sfruttamento economico, del quale è vittima, la comunità ebraica rimane, comunque, relativamente aperta.
Il ghetto diventa così una realtà “porosa”, che crea “le premesse per lo sviluppo di una esperienza di primissimo piano” (pag. 49), soprattutto sotto il profilo culturale, attraverso, in particolare, la già ricordata “straordinaria esperienza dell’editoria, che a Venezia trova il terreno più fertile d’Europa” (pag.10). Ma anche attraverso il turismo. Infatti, non c’è personaggio di un certo rilievo che, arrivato in città, non chieda di fare una visita al ghetto.
Del resto, è incontestabile il fatto che i ghetti più viscidi e minacciosi sono quelli che ciascuno di noi tende a erigere nella propria mente.
Quanto dire, altrimenti ancora, che non c’è barriera insormontabile, se l’uomo la rifiuta innanzi tutto dentro di sé.
Il libro recensito non è un libro di storia. Scritto da un giornalista è un caleidoscopio di tipi umani e di stili di vita diversi : dove predominano gli artigiani e i mercanti, ma anche le prostitute, corporazione potentissima perché di larga rappresentanza e di fiorente domanda, contro la quale la Serenissima nulla può, se non limitarsi, per l’esercizio della professione, a istituire fasce orarie, dopo di non essere riuscita a instaurare un quartiere a luci rosse ante litteram in cui confinarle.
Un universo affascinante di lingue, vestiti e fedi diverse arricchito pure da figure storiche minuziosamente ricostruite (vds., fra le molte altre, quella del Doge Leonardo Loredan che ha firmato l’ordinanza istitutiva del ghetto pag. 38 e ss.) nonché dalla narrazione di aneddoti gustosi su uno dei quali vogliamo attirare l’attenzione del lettore perché oltremodo istruttivo.
La possibilità della permanenza degli ebrei in Venezia è sempre soggetta al tempo : di regola da tre a cinque anni. Approssimandosi la fine dell’accordo, si aprono convulse e prolungate trattative. La comunità ebraica gioca al ribasso. La Serenissima, al contrario, mira a spuntare un tributo annuo di importo sempre maggiore.
In una di queste circostanze si assiste ad un siparietto verbale veramente gustoso.
Il Doge argomenta sostenendo che aiutare la Serenissima dovrebbe essere considerato dalla comunità ebraica come un autentico privilegio. Nella foga della discussione rinfaccia al suo attento interlocutore di non essersi offerto spontaneamente al negoziato, anziché esserne richiesto.
Il capo della Comunità dell’epoca – Je Kutiel – imperturbabile, con ironia tipicamente ebraica, replica con una battuta degna di essere ricordata “Volevamo ben venir, ma Vostra Serenità ne ha soleità tanto ch’è stata più presto de nui” (pag. 44).
Con conseguente risata generale che ha l’effetto di riaprire il dialogo fino al suo ovvio epilogo: la conclusione dell’accordo, così come preteso dal Doge perché, come aveva riconosciuto in una precedente trattativa Anselmo Dal Banco in termini rigorosamente veneziani “Quando il voler col poder combate, el poder sta de sora” (pag. 42).
Che è lezione valida ancor oggi, proprio come ieri e forse ancora domani. Ma questa è tutta un’altra storia, della quale, semmai, diremo in un’altra circostanza