Male-dicere. La maldicenza come violazione della Creazione

di Veronica Mesisca

Ain Soph. Prima dell’Albero, prima indi del Verbo e della Vita… quel soffio non emesso, che sarebbe già creazione, ma inspirato… quell’atto prima di pronunciare in cui si prende fiato. In questo Ain Soph che è prima senza tempo, “dalla profonda oscurità in cui [Victor si] trovava, una luce improvvisa brillò”1. Con tali parole, Mary Shelley dà principio alla vita della Creatura del celebre protagonista ottocentesco, sovente con-fuso alla sua opera nel nome di Frankenstein. Giovane come la sua ideatrice, che a soli diciannove anni era già capace di comporre opere mostruose non meno del suo personaggio letterario, Victor, nel suo essere scienziato tedesco appassionato allo studio dei testi di Paracelso come di Galvani, è emblema di un disagio dovuto ad una società inglese moderna che “sostitu[iva] chimere di incalcolabile ricchezza con realtà di poco valore1… studioso pallidamente imbarazzato da una scienza che si prendeva l’onere di distruggere i sogni di un elixir di lunga vita, ostentando tale atto di cieca derisione ad onore di autentica conoscenza. Victor e Mary hanno osato, almeno in un libro, riunire sapere antico e moderno in un laborem scientiam di Oxford, per “riportare la vita dove la morte sembrava avere già consegnato il corpo alla corruzione”1, ri-ponendo emet su quel gigante di creata qabbalistico derivante e destinato a met, ben prima dell’ultima pagina del romanzo. Intento sacro, ispirato al libro dello Sefer Yetzirah, quello di Frankenstein, poiché definito non dai limiti invalicabili che l’adolescenziale scienza londinese predicava, ma da barriere sacralmente vigili. Compitare doveva essere l’imperativo di quel Victor iniziato ai Misteri Naturali dai testi di Agrippa, come era imperativo perentorio nei datati rituali dei Liberi Muratori, ove si esplicitava sempre e in ogni grado che all’apertura e alla chiusura dei lavori “il primo D si avvicina al MV che gli trasmette la prima sillaba della parola sacra, la porta al primo S e ne riceve la seconda. Il secondo D si avvicina al primo S che gli trasmette la seconda sillaba, la porta al secondo S e ne riceve la terza. I due DD portano la sillaba ricevuta al MV”2, quanto unico capace di ri-assemblare con saggezza. Parole spezzate e simbolicamente tramandate in tre lettere: beth, ain, zain jod, cap, nun mem, ain, beth… mai tutte sulle labbra dello stesso diacono o sorvegliante, mai tutte le membra nelle mani di un Victor ancora mancante della giusta sapienza edificante. Pena, appunto, la creazione del mostro. Compitare dunque sempre e in ogni grado, perché è nel silenzio definito dal suono che risiede il sacro in-genere, come ben esprime il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (seguace contemporaneo di Bertrand Russell e, come lui, profondo conoscitore della logica matematica) nel concetto di parola sbriciolata, valorizzata dal vuoto della discontinuità. Vocaboli ritualmente posti all’Apprendista, composti dal Compagno, per essere dal Maestro decomposti e ricomposti… ricomposti nel nostro Oriente da Minerva come nella Terra dei Faraoni da Iside, o a Gerusalemme dal Sacerdote del Sancta Sanctorum, per limitarci in tal sede al solo accostamento delle due tradizioni bibliche separate dalla acque grazie al “forte vento d’Oriente”3, che rese il mare asciutto… Miti frutto di uomini di Egitto e d’Israele, credenti nella ricomposizione e resurrezione dei morti, ma incapaci di riconoscersi figli smembrati dello stesso divino, pertanto oggi come ieri necessariamente divisi dalla biblica “nube tenebrosa”3 che la sapienza divina ancora detiene, nell’attesa di una rinascita, unica e sacra, che pare, nello specifico caso, stia ancora tardando… Il verbo in principio, il verbo che crea, che edifica e che è quindi lavoro… quel lavoro sacro, unico e duplice quanto condanna e salvezza dell’uomo… quel lavoro di cui si perde il senso se incapaci di riceverlo come dono divino alla richiesta di Adamo di poter conquistare un Paradiso di cui non si sentiva degno. Lavoro sacro, indi, poiché dono di dignità divina. Lavoro sacro come la parola che in Tempio lo apre e lo chiude. Verbo generativo, rivelante all’uomo il suo ruolo di co-creatore, è segreto del Sacerdote invocato giorno di Yom Kippur come in quello della rinascita osirica… parole innominabili, non per impossibilità, ma per monito: una mal-dicenza darebbe luogo alla Creatura di Frankenstein, a quell’essere animato per nobili scopi, ma di fatto, poiché non animato nel sacro, diventa irrimediabilmente profano… e profana l’umanità, tutta, nella disperata avidità della sua. Victor, simbolico elemento di una scienza violata, non può che generare il mostro della volgarità comune, la mummia sconsacrata. Eppure il personaggio di Mary Shelley, sguarnito di saggezza, bastevole di conoscenza, inevitabilmente ossessionato da “l’impulso irresistibile e quasi frenetico” di dare origine a “una nuova specie [che lo] avrebbe salutato come sue creatore e signore”, accorpa le membra della sua opera con galvanici precetti, e –  parafrasando in chiave modera lo Zohar – con “una fiamma troppo oscura per essere vista”1 accende l’essere. D’ora in poi non avrà più modo di tornare indietro. L’atto è compiuto. Il Golem di Frankenstein ha vita propria. Il verbo male-detto è pronunciato. In chiave chassidica, si direbbe forse che le piume sono state emesse… quelle piume d’oca, di corvo o di colomba… magari di pellicano, ma fossero anche piume d’aquila, d’angelo o d’Icaro poco importa nello specifico, poiché tutte comunque simbolico elemento di elevazione che, se disperso al vento, non è possibile recuperare per la salvezza dal meandro terreno. Da ciò, forse, il monito sotteso nel noto racconto giudaico – che, per attualità e universalità degli insegnamenti, merita di essere riportato – dell’uomo che, dopo aver proferito cose negative sul conto del maestro, sentendosi in colpa, chiede perdono al rabbino. Egli risponde all’uomo di andare a casa, tagliare un cuscino e gettare le piume al vento. Tornato, poi, dal maestro per l’ammenda, il saggio dice all’uomo che, ora, per rimediare al verbo malevolmente espresso, deve tornare indietro e raccogliere tutte le singole piume disperse. Come le piume, nessuno può recuperare le sue parole male-dette. Nessuno può annullarne gli esiti, tornare sui propri passi, ravvedersi e cancellare gli effetti prodotti da ciò che è stato volgarmente sparso. Non solo in un Tempio ogni parola pronunciata dovrebbe essere sacra e soggetta alla Saggezza. Da ciò anche il precetto giudaico di non pronunciare un Lashon Hara, ovvero nulla di negativo riguardo a un altro, attenendosi al divieto anche nel caso in cui il discorso corrisponda a verità, con unica e specifica eccezione di scongiurare un evidente male peggiore. Antichi insegnamenti, ma noi continuiamo a male-dicere fuori e dentro al Tempio, gettando tutti i pezzi della parola sacra all’orecchio di diaconi e sorveglianti, togliendo indi ai sette gradini della saggezza l’unicità di poter comporre il dio osirico… E così, come Victor, quasi inconsapevolmente – ma non incolpevolmente –, ci ritroviamo un Golem che apre e chiude i nostri sacrileghi lavori… forse non maligno, solo mal posto, l’essere gira per il Tempio chiedendo ai suoi artefici di adempiere “l’unico dovere di un creatore nei confronti della sua creatura”1, ovvero ascoltarlo… ascoltarlo mentre chiede: dove si è perduto il sacro?

 Bibliografia:

  1. Frankenstein. Mary Shelley, Ed. Oscar Mondadori, 2012.
  2. Lapis Reprobatus Secretum Custoditum, Ed. Libreria Pardes, 2014.
  3. La Sacra Bibbia, Esodo 14:20-21.