Sullo scrivere bene: scritto e memoria nel “Fedro” di Platone
di Antonio Binni
Filosofia significa arrestarsi, arrestarsi per pensare, per porsi domande nate dalla curiosità e dal dubbio. Ricostruire le domande e mettere in luce le risposte date dagli antichi filosofi agli interrogativi nati dalla riflessione non esime, ovviamente, gli inquieti ricercatori moderni dal loro personale lavoro di analisi. Risalire però al passato è compito fondamentale perché ci istruisce su come problemi, ancora attuali, sono stati a suo tempo sollevati e impostati. Ci illumina soprattutto sulle strade che sono state battute per conseguire risposte soddisfacenti. In termini preziosi ci mette in guardia dai tentativi falliti, mentre ci confortano e ci inorgogliscono i successi raggiunti. È sulla scorta di queste pur brevi considerazioni che oggi vogliamo affrontare il duplice problema della corretta e felice composizione di un testo scritto e del rapporto che intercorre fra lo scritto e la memoria. Domande sollevate da Platone nel Fedro. Se non il dialogo più riuscito, per certo fra quelli più amati per la bellezza dei suoi discorsi, per la potenza delle immagini, per la ricchezza del suo contenuto. Il Fedro contiene infatti mirabilmente riuniti in sé tutti i temi più importanti del pensiero di Platone. Qui, data la sede, ovviamente non è oggetto di analisi integrale, avendo optato per la duplice scelta dianzi accennata. Come ogni scelta, quella compiuta ha natura del tutto soggettiva. Sembra, tuttavia a noi che l’opzione prescelta non sia del tutto arbitraria, a motivo che i due problemi, sui quali intendiamo intrattenerci, sono per certo ancora oggi particolarmente interessanti, oltre che sicuramente molto attuali. Il tema di come si debba comporre un testo scritto è impostato da Platone con un pretesto, la critica che un politico ateniese avrebbe rivolto a Lisia, insultato perché “logografo”, ossia scrittore di discorsi, come se il fatto stesso dello scrivere fosse in sé riprovevole (257c). Socrate, nella sua confutazione, ha buon gioco nell’osservare che sono “proprio i politici più superbi” quelli che scrivono discorsi “per lasciarli dietro di sé” (257e). Dunque, “scrivere discorsi non è di per sé sconveniente” (258d). Secondo Socrate, il vero problema è invece quello di scrivere male o bene: “sconveniente credo che sia piuttosto scrivere o parlare non bene, ma male, in modo sconveniente” (258d). L’indagine, secondo Socrate, si sposta allora su “come dire e scrivere bene un discorso e come male” (259e). L’attenzione di Socrate si concentra innanzitutto sul contenuto del discorso che, nel suo pensiero, si risolve in una indagine tecnica in aperta polemica con i sofisti. Per costoro la verità è sostanzialmente irraggiungibile. Rimanendo sconosciuta la verità, secondo i sofisti, non resterebbe altro che la persuasione (261a – b). Un discorso ben fatto, secondo questo punto di vista, sarebbe allora solo quello capace di convincere un uditorio. Per il che non sarebbe dunque punto necessario fare appello a ciò che è realmente giusto, potendo all’opposto essere più che sufficiente ancorarsi a ciò che ritiene giusto la massa di chi giudicherà il discorso. In estrema sintesi, secondo i sofisti, non ciò che è realmente buono o cattivo, ma ciò che sembrerà tale sarebbe dunque la stella polare per comporre un discorso di successo. Avverso codesta veduta che spaccia “il male come se fosse bene” (260c), Socrate per contro sostiene che la persuasione, come risultato del discorso, non è affatto sufficiente per rendere un discorso degno di approvazione. Solo chi conosce ciò di cui sta per parlare è infatti in grado di persuadere (261e; 262c). Altrimenti si ingannerebbe per primo chi ne fosse sprovvisto all’atto di prendere la parola. Da qui la conclusione che verità e persuasione vanno insieme, fermo rimanendo che la verità è la vera artefice della persuasione. “Una vera tecnica della parola che non sia legata alla verità, né c’è né mai ci sarà” (260e). L’equiparazione fra verità e persuasione permette poi a Socrate di affermare la piena identificazione fra la filosofia, come artefice della verità, e la retorica, come tecnica della parola, che, nell’ottica socratica, non sono dunque due discipline distinte per avere oggetti diversi, ma un’unica disciplina stante la loro perfetta coincidenza. Sicché non c’è retorica senza filosofia perché la retorica è filosofia e la filosofia è retorica. In questa veduta, com’è ovvio, assume poi una decisiva importanza la dialettica. Dall’analisi del contenuto, secondo Socrate, non va poi disgiunta quella formale del testo. Se un discorso non fa chiarezza in ordine alle cose di cui discute, esso risulta del tutto mediocre. Come appunto, agli occhi di Socrate, si è rivelato il discorso di Lisia proprio perché non in grado di fare chiarezza in ordine all’argomento trattato: il tema, decisivo, dell’ἔρως. Socrate, in generale, sostiene che il discorso non può essere “buttato giù” alla rinfusa. Con una celebre metafora spesso ripetuta nei dialoghi, secondo Socrate, “ogni discorso” deve “essere composto come un organismo vivente; deve avere un corpo suo proprio che non manchi né di una testa né dei piedi; piuttosto deve avere delle parti centrali e delle estremità, scritte in modo adeguato l’una all’altra e con l’insieme” (264c). Platone, in molti suoi scritti, insiste sul ruolo della memoria. Così, ad esempio, nel Filebo, sottolinea, in particolare, la felicità che la memoria procura riesumando bei ricordi. Nel Fedro, Platone si occupa invece della memoria da altro profilo. In questo dialogo si interroga infatti in merito al rapporto che intercorre fra lo scritto e la memoria. In specifico, la domanda verte sul punto se lo scritto aiuta a ricordare o se, invece, il testo scritto si risolve in una fonte d’oblio. Platone introduce l’argomento con un mito probabilmente frutto della sua stessa fantasia. Ci narra così che, nell’antico Egitto – luogo di sapienza arcaica – un demone chiamato Theuth – secondo la maggioranza degli studiosi prestanome di Prometeo – avrebbe, fra le altre tecniche, inventato pure la scrittura, per offrire aiuto alla debole memoria. In quanto tale, l’avrebbe poi offerta in vendita a Thamous, re del paese. Questi, dopo avere attentamente ascoltato gli argomenti addotti da Theuth a favore della scrittura (273d), si oppone però recisamente all’acquisto, sostenendo che la scrittura, invece di essere un aiuto per la memoria, finirebbe, all’opposto, per produrre l’effetto contrario, ossia di perderla. Utilizzando lo scritto come ausilio, secondo il monarca, si finirebbe infatti per trascurare proprio la memoria, posto che quest’ultima richiede invece propriamente un esercizio “dall’interno di se stessi” (275a). Il rifiuto viene definitivamente motivato dal fatto che la scrittura, lungi dall’aiutare la memoria, può, invece, solo aiutarla a ricordare ciò che già si sa. Quanto dire, altrimenti, che allo scritto può essere riconosciuta solo una funzione vicaria rammemorativa, senza essere, però, ancora memoria vera quella del soggetto che ricorda senza recuperare, insieme alle parole, pure ciò che già conosce. La parola greca farmacon – utilizzata dall’inventore per presentare la scrittura come un “rimedio” per rafforzare la memoria nella sua debolezza – a riprova della ambivalenza del vocabolo nella lingua di Platone – nel linguaggio regio finisce così per significare propriamente “veleno” visto che lo scritto, anziché rafforzare la debole memoria, finisce, col tempo, per ucciderla! Proprio come accade oggi! Se è vero, come è vero, che abbiamo delegato al “telefonino” non solo l’operatività richiesta dai calcoli più semplici, ma perfino il numero di telefono… di casa! Né c’è più di ausilio quell’“arte della memoria” che ci hanno tramandato i retori latini, tanto praticata nel XVI e nel XVII secolo, che, come noto, insegnava a conservare i dati da rammemorare in uno spazio (cortile; vestibolo; ecc.) per poterli poi agevolmente ricondurre alla memoria. Col che la morte della memoria sembra ineluttabile e definitiva! Nel presente, non va però demonizzata la scrittura, che assume l’aspetto del supporto elettronico, visto che questo dato consente pur sempre di impadronirsi di tutto l’universo conosciuto, con grande gioia e soddisfazione, perché “un sapere limitato non dà vera soddisfazione”. Così Ugo di San Vittore (in Didascalion, VI, III, Milano, Rusconi, 1987, 193) che, per questo, sentiamo a noi più vicino di Socrate, perché questi (V Sec. A. C.) considerava il libro come del tutto distruttivo, un autentico veleno, mentre Ugo di San Vittore (XV Sec. D. C.), all’opposto, proponeva di considerare il libro come uno strumento utile. Non solo per avere le idee a portata di mano nel momento del bisogno, ma anche, per non dire soprattutto, per imparare proprio quel “tutto” che, nell’epoca contemporanea, offre la tecnologia. Un’ultima postilla. L’idiosincrasia di Platone nei confronti della scrittura è nota a tal segno da autorizzarci a omettere una qualsiasi citazione. Anche se il richiamo alla VII Lettera ci sembra obbligato. Codesta avversione non difetta neppure nel Fedro. Nel mito socratico il re – ombra di Platone – disapprova infatti energicamente la scrittura perché, quando la parola viene messa per iscritto, diventa indipendente dal suo autore, uguale a sé per sempre. Né è capace di rintuzzare un attacco o di difendersi perché “il padre” (275e) dello scritto non è in grado di intervenire “in soccorso” in quanto definitivamente assente. Per Socrate il discorso messo per iscritto è un discorso orfano perché sopravvive al “padre” suo autore e, quello che ci sembra ancor più grave, agli stessi lettori che mutano di generazione in generazione, autentici patrigni che diventano custodi del suo significato, fonte di controversie a causa delle molteplici e mutevoli interpretazioni, argomento, quest’ultimo, che, data la sede, non può, all’evidenza, essere toccato neppure di striscio. L’insegnamento socratico, per quanto sinteticamente lumeggiato, ci insegna a riflettere su cosa significa ancor oggi scrivere con un elegante contenuto e cosa significa ancora oggi leggere per rammemorare, ma pure, e soprattutto, per imparare. L’utilità di questa lezione è pertanto evidente a chi ha ancora a cuore il bisogno della consapevolezza.