Necessità o libertà: due visioni a confronto
di Antonio Binni
L’uomo è un enigma che pensa. La filosofia vaglia le idee, analizza i problemi originati dalla riflessione, esplora le possibili relazioni che si instaurano fra i pensieri; nulla ignora dell’oggetto del pensare, neppure le possibili conseguenze sul piano intellettuale, anche in termini di eventuali contraddizioni. Ne discendono due corollari. Il primo: la verissima philosophia non costruisce nulla perché ha un oggetto a sé già preesistente, costituito dai pensieri degli uomini. Sicché, come ha insegnato Platone, l’autentica filosofia ne fa soltanto l’inventario. Il secondo: il pensare, notoriamente, ha natura universale perché il riflettere appartiene a tutti gli uomini. Ne consegue che la vera filosofia non rientra nel dominio delle singole scienze che, per definizione, hanno invece singoli e specifici saperi (il diritto, la matematica, la medicina, ecc.), quindi non è mai coglibile, come invece i contenuti delle diverse discipline. Il filosofare – ovvero l’attività del pensare – non è l’esercizio di un mestiere. All’opposto, è un modo per avvicinarsi il più possibile alla verità, avvertita come l’esigenza e l’urgenza assoluta della vita. La verità è però fenomeno complesso, non solo perché si ignora il luogo dove abita, ma pure perché non è affatto agevole raggiungerla, comportando questo compito un continuo sforzo di attenzione. I filosofi sono perciò sempre impigliati in grovigli di pensieri nei quali non è affatto agevole districarsi, con una posta sempre alta, poiché la verità viene riconosciuta come l’unico autentico bene, in quanto costituisce l’orientamento e il senso di tutta la vita dell’uomo. Infatti è solo la verità che permette di indirizzare l’anima verso ciò che la supera, disprezzando invece ciò che della stessa è più infimo. Il filosofare diventa così una necessità e un dovere se non si vuole – così come non si deve – sprecare l’esistenza. Né mette conto ascoltare la voce delle sirene scettiche, secondo le quali il continuo cercare non porta mai a possedere nulla. Il filosofare, come attività principe del vivere umano, lungi dal risolversi in un insensato vagare fra in-certezze, è infatti una attività capace di acquisire via via segmenti di verità sempre più ampi, anche se parziali, ma pur sempre verità; da non confondersi con il concetto di verosimile, ossia di simile al vero, perché la similitudine al vero presuppone necessariamente la conoscenza di cosa sia il vero, senza la quale non si è in grado di giudicare cosa possa essergli simile. A voler essere obiettivi, così come pur si deve, non risponde poi a verità una sorta di predilezione dei filosofi verso il concepire problemi complessi. All’opposto, è proprio la varietà dei problemi, e la loro intricata natura, che costringono i filosofi a sbrogliare nodi difficili e perfino inestricabili, come ad esempio quello che con queste note intendiamo affrontare e approfondire. Esso è particolarmente rilevante, forse insolubile, sicuramente il più importante di tutti i problemi oggetto d’analisi, visto che il quesito sul quale si incentra la nostra odierna riflessione in-veste la stessa visione che si deve avere del mondo, trattandosi, appunto, di definire se il regno della realtà sia retto dalla necessità o, all’opposto, dalla libertà. Non è sicuramente questo il luogo per illustrare le pur legittime ragioni che militano a favo-re dell’una o dell’altra opzione. Fermo rimanendo, a nostra convinta opinione, che nella scelta finisce inevitabilmente per avere un peso non marginale una propria personale pro-pensione al tipo di vita che si avverte come il più congeniale al proprio intimo profondo sentire. Suggestione della quale palesemente è rimasto vittima anche chi ha scritto queste note, come emerge con chiarezza dallo stesso preambolo. Senza, dunque, entrare nel meri-to ci limitiamo unicamente a dare conto delle due diverse visioni, dal rispettivo profilo contenutistico alla luce di una premessa formulata soltanto per doverosa complessiva informa-zione. La teoria del mondo retto dalla necessità – e quindi privo di libertà – è visione che governa il pensiero degli stoici, di Spinoza, di Hegel, di Nietzsche, da ultimo di Simone Weil e, in genere, pure di tutte quelle religioni, tra cui in primo luogo l’Islam, che insistono sul primato della necessità intesa come dominio assoluto sul corso delle cose. La teoria del mondo in balia del caso, ma proprio per questo motivo capace di libertà, è invece il punto di vista che regge il pensiero di Platone, di Kant, di Jaspers, fra gli scrittori-filosofi, di Dostoevskij e, in ambito religioso, dell’ebraismo della linea profetica, che insiste appunto sul primato della libertà con la sua indeterminazione. Nella illustrazione dell’argomento cominciamo la rassegna dando conto, per prima, della visione del mondo come necessità, perché è tesi meno praticata. Fedeli alle regole espositive ne metteremo particolarmente in luce, oltre ai principi, soprattutto le rilevanti conseguenze che dalla stessa derivano come inevitabili, coerenti corollari. Questo punto di vista muove dall’assunto che l’essere umano soggiace alla durezza dei fatti, contro i quali nulla può, per essere unicamente ridotto alla mera presa d’atto, con inoltre la piena consapevolezza della assoluta inutilità al compimento di qualsiasi tentativo volto a sfuggire alla morsa che lo attanaglia, risolvendosi – così si sostiene – in sogno e illusione la speranza di sottrarsi alla costrizione. In quest’ottica la natura esercita un dominio assoluto su tutto ciò che esiste, uomo compreso, al quale non rimarrebbe, dunque, che l’obbligo della obbedienza o, per dirla in termini ancora più puntuali, il consenso alla necessità. Il che logicamente comporterebbe, da un lato, il riconoscere giusto l’ordine del mondo, un ordine finalmente da amare (amor fati) invece di metterlo costantemente in discussione; dall’altro lato, il vivere impersonalmente, senza scopi o fini precisi perché, secondo questa veduta, si agirebbe non già per qualcosa, bensì perché non ci si potrebbe contenere altrimenti. Quanto dire che, in quest’ottica, l’azione si compie sol-tanto perché necessaria. Dunque, comportamento non attivo ma passivo, perché si agirebbe sempre sotto una insopprimibile coazione. Da qui, appunto, il distacco da tutto ciò che è personale, compresa la rinunzia ad attendersi una qualsiasi ricompensa per l’impegno e la fatica profusi. Lo stesso bene, sempre secondo la veduta qui in esame, sarebbe una azione non agente, avvenendo per obbedienza. La stessa natura di bene non dipenderebbe allora dalla volontà dell’agente, ma dal fatto che l’azione rientra direttamente nell’ordine già dato che corrisponde a ciò che è bene. Solo il male sarebbe invece azione agens, perché inosservanza della legge della necessità. In quest’ottica, per concludere l’esposizione, non v’è dunque spazio né per la libertà, né per l’“io”. Non per la libertà, intesa come libertà dalla necessità, perché questa veduta altro non sarebbe che mera illusione, visto che, come già insegnava Democrito, “tutto ciò che accade, accade secondo ragione [=ordine], e di necessità”. Né per l’“io” perché l’“io” non viene riconosciuto come valore fino al punto di considerare addirittura come contraddittoria la stessa frase “io sono libero”. Ciò che di-ce “io” è infatti ciò che non è libero. Prendere coscienza di entrambe codeste morti, così si rimarca, è poi molto doloroso, ma strettamente conseguente alla premessa che tutto è necessità. Una volta compreso tutto ciò, si inferisce che il compito dell’uomo si ridurrebbe unicamente a quello di purificare il proprio sguardo sulla realtà, ponendosi in una posizione di attesa di quella verità che cala dall’alto, perché l’uomo non potrebbe in alcun caso fabbricare qualcosa che gli sia migliore. Religiosamente è la discesa dal cielo della Sapienza che “grida per le vie, fa sentire la sua voce per le piazze” (Pro-verbi 1, 20). Il concetto di attesa – atteggiamento passivo – diventa allora un punto centrale della dottrina, perché proprio nella pazienza viene ravvisato il fondamento della vita spirituale, con un linguaggio talora perfino mistico, come è dato cogliere nelle bellissime pagine di Simone Weil. Di segno radicalmente opposto a quella testé illustrata è invece la visione del mondo incentrata sulla libertà: punto di vista sul quale è ormai giunto il momento di intrattenersi, con l’avvertenza, per altro doverosa, che saranno messi a fuoco solo quelli che, a giudizio di chi scrive queste note, sono punti qualificanti della prospettazione oggetto d’esame o, quanto meno, quelli che sono stati personal-mente avvertiti come i più coinvolgenti. Sgombriamo il campo da una premessa. Può invero sembrare paradossale accetta-re una visione del creato alla luce della libertà, considerato che la libertà è uno strumento pericoloso non solo per il destino dell’uomo, ma pure per quello dell’intero creato (come oggi è evidente per quanto attiene all’ambiente, divenuto il problema centrale dell’evo presente). In realtà, nella accennata scelta non v’è però alcunché né di anomalo né di singolare, posto che la libertà, alla quale in quest’ottica si fa riferimento, non coincide affatto con l’arbitrio, quanto invece con lo spazio – delimitato e circoscritto – nel quale può legittimamente operare la facultas agendi. Tanto da doversi sostenere che, secondo la visione qui illustrata, il limi-te è coessenziale e perfino coevo allo stesso concetto di libertà, visto che l’esercizio del potere d’agire non è in alcun caso e per qualsivoglia motivo mai consentito oltre quel confine, pena l’invasione della libertà altrui. Ne discende che nessuno è in grado di apprendere il segreto della libertà se non attraverso la disciplina. Con una constatazione del tutto realistica, quanti abbracciano la visione del mondo come incentrata sulla libertà, così come sopra intesa, riconoscono l’importanza della tempesta degli eventi che spesso travolge la creatura immersa in una condizione di perenne incertezza. Ma l’uomo, così si sostiene, non può accettare né rassegnarsi all’idea di essere astretto e ristretto da una ferrea necessità. Si propugna così che esiste uno spazio nel quale l’uomo può sempre operare senza restrizioni per-ché l’ostacolo può essere rimosso rosicchiandolo. In questo ambito la prima e fondamentale forma di libertà assicurata alla creatura è quella di auto-costruirsi, perché – così si insegna – a differenza dell’animale, che rimane sempre uguale a se stesso (il cavallo nasce cavallo e muore cavallo; la pe-cora nasce e muore pecora; ecc.), l’uomo può indifferentemente divenire santo o assassino per essere naturalmente privo di una sua essenza specifica, riducendosi a mera possibilità. Per questo è stato legittimamente permesso a Platone di affermare che l’uomo, figurativamente, si trova al centro di un guado proprio perché può scegliere la riva verso la quale indirizzarsi. L’espressione più alta della propria libertà l’uomo la rinviene però nella scalata al trascendente, tensione all’altrove, che non è afflato religioso quanto invece una necessità struttura-le, completamente “laica” e antropologicamente fondata. Rivendicando la propria libertà dal profilo qui considerato, l’uomo si arroga così il diritto di essere l’anello di congiunzione fra il microcosmo e il macro-cosmo, che è poi rivendicazione della possibilità di una indagine fruttuosa in uno spazio estraneo al sensibile, luogo di una conoscenza affidabile, ordito occulto del reale. È proprio nella capacità di penetrare in questo luogo – per dirla con Agostino – secretus, stabile e in ciò verus, che l’uomo coglie la propria nobiltà e il punto più elevato della sua esistenza, che è esigenza, e dovere avvertito, di conoscere il vero: ricerca in senso verticale e dunque opera attiva, perché indirizzata in una direzione di segno opposto e antitetico a quella passiva, punto d’approdo di quanti invece pongono a fondamento del mondo la necessità. Trascorrere la vita nella ricerca del verum, che si alimenta del gusto doloroso della domanda, significa apertamente condannare l’uomo a una esistenza di perenne imperfezione, a una tensione strutturale quanto prometeica, che rende tuttavia felici. Anche se non troverà la verità, l’uomo, così contenendosi, avrà infatti pur sempre fatto proprio tutto quello per cui è nato. Del resto, così si insegna, la ricerca della verità non va intesa come il progressivo conseguimento di conoscenze sempre più affidabili, quanto invece come un vero e proprio orizzonte di senso. La libertà di pensiero è libertà creativa. Anche coloro che negano la libertà – in favore della necessità – non possono però non riconoscere la libertà interiore. Altrimenti argomentando si finirebbe, infatti, per negare l’esistenza della morale che ha consentito all’uomo, nel corso del tempo, di riconoscere le diseguaglianze e i soprusi, e di unirsi per ribellarsi all’ingiustizia, per combattere il male. La libertà d’azione è capacità di muoversi liberamente fino a individuare il posto che ogni uomo deve occupare all’interno dell’universo ordinato. In questo spazio, dove s’incontra l’altro come fratello, perché tutti figli dell’unico cielo, si articola l’azione generosa e nobilitante, anche se si tratta pur sempre di un territorio pericoloso e incerto, nel quale è facile cadere in errore e perfino perdersi. In tutto ciò consiste però la dignità e la grandezza dell’uomo, come, con espressioni mirabili, ha insegnato il mio quasi concittadino Pico della Mirandola. È allora facile com-prendere la ragione per la quale la libertà – e non la necessità che annichilisce l’uomo – sia stata dai più eletta come principio fondativo del reale, inteso come mondo. Superfluo aggiungere che quest’ultima è la visione del mondo previlegiata dalla massone-ria, che crede nella possibilità di creare un homo novus proprio perché l’uomo nasce nella libertà e non anche invece astretto dalla necessità. Una libertà – la specificazione è d’obbligo – intrisa tuttavia di pietas, ossia di premura amorosa per ogni forma di vita, in un rapporto di convivenza nuovo, tra gli uomini come tra gli uomini e il creato, perché dare origine a una nuova umanità è sicuramente possibile.