Per un umanesimo digitale
di Antonio Binni
È radicata opinione di chi scrive queste note che i Fratelli Libero-Muratori debbano con impegno obbiettivo affrontare i problemi del tempo presente per poterne prima acquisire reale consapevolezza e conoscenza in tutte le loro implicazioni e, successivamente, per potere poi – come prescrive un Rituale che non nomino – “spandere la luce” che è compito irrinunciabile di ogni autentico iniziato. Da qui la scelta del tema sicuramente meritevole di approfondimento stante innanzitutto la sua indiscutibile attualità, oltre che per l’indubbio fascino che riveste tale problematica, fra l’altro, anche oltremodo complessa perché incrocia saperi tra loro molto differenti, quali l’ingegneria, la psicologia, la filosofia e, primo fra tutti, il delicato territorio della morale. Più di sessanta anni fa, Gülther Anders, discepolo di Heidegger, pubblicò quella che è rimasta l’opera sua più celebre, intitolata L’uomo è antiquato – 2 voll. Torino, Bollati Boringhieri, 2007 – nella quale l’A. sosteneva la tesi suggestiva secondo la quale l’uomo è ormai un essere obsoleto, perché le realizzazioni della tecnica consentono appunto di svolgere i compiti dell’umanità molto meglio dell’uomo. A voler essere realisti, si deve obiettivamente riconoscere che i nuovi ritrovati informatici hanno di gran lunga superato le stesse intuizioni di quell’autorevole filosofo ben al di là di ogni sua personale previsione. Non si può infatti non prendere atto che i nuovi ritrovati tecnologici adempiono in termini estremamente efficaci diversi importanti compiti in precedenza svolti dall’uomo in verità molto meglio dell’operato dell’essere umano. Gli esempi sono noti. È perciò inutile richiamarli singolarmente. Al proposito va piuttosto rilevato che la tendenza in atto è quella di affidare i ritrovati della tecnica ad un campo sempre più vasto, perfino ad un ambito assolutamente imprevisto quale quello della psicanalisi, dove la consapevolezza di avere a che fare con una macchina priva di emozioni e soprattutto incapace di giudizi ha finito per costituire un vantaggio non secondario capace di vincere possibili resistenze e chiusure. L’assenza di un volto sembra infatti che favorisca l’apertura e la condivisione di aspetti intimi, difficili e dolorosi. Preso atto degli indubbi vantaggi assicurati dalla tecno-scienza, balzano tuttavia agli occhi anche evidenti aspetti che destano preoccupazione nel momento stesso in cui si vorrebbe affidare alle macchine una sempre più vasta gamma di decisioni. Evidente è infatti il pericolo di una possibile “dittatura del digitale”. L’accettazione sociale delle nuove tecnologie ed il loro impiego in ambiti sempre più vasti, tanto da condizionare persino la politica nelle decisive scelte elettorali, conferma infatti il rischio che l’essere umano diventi schiavo della macchina che ha inventato. Da qui la necessità di avere ben chiari taluni aspetti – e limiti – che sono essenziali per non incorrere in pericolosi travisamenti. Si può innanzitutto concordare sulla definizione di intelligenza artificiale così come abitualmente accettata, ossia come quella che, con programmi, è in grado di realizzare comportamenti “intelligenti” quali propri degli esseri viventi. Nel contempo si deve riconoscere che l’intelligenza artificiale si trova al cuore del cambiamento d’epoca che stiamo vivendo. Ciò posto, per evitare equivoci e fraintendimenti, si deve però subito soggiungere che la macchina non è persona in quel senso pieno che è proprio del vocabolo. Il che esclude, per definizione, che, con la macchina, si possa instaurare una relazione identica a quella che si avrebbe con un essere umano. Nella macchina manca quel coinvolgimento che è invece proprio dell’essere umano che, nella relazione, si espone al rifiuto per definizione ignoto invece alla macchina, incapace di ogni pietà. Da qui l’impossibilità di replicare con una macchina mai coinvolgente quei rapporti umani che si sviluppano proprio fra gli uomini. A identica conclusione deve pervenirsi in forza del rilievo che la macchina non parla, dal momento che si limita a utilizzare una procedura, mere strisce di informazione. Sicché il sogno di Turing di inventare una macchina che “parla” come l’uomo è destinato a rimanere un sogno perché, a differenza dell’essere umano, la macchina ignora il significato delle parole. Si vuol dire altrimenti che una macchina o un robot non potranno mai “parlare” come un essere umano perché sono privi della lingua che è simbolo, sfumatura, pausa, in generale, semantica propria ed esclusiva della mente umana. Fra programma e significato c’è un salto di qualità proprio perché la dimensione della mente umana è irriducibile a un algoritmo o a una macchina. Come il linguaggio, anche l’esperienza morale presenta una intrinseca irriducibilità ad una procedura pre-programmata. La morale è infatti una peculiarità propria dell’essere umano per essere – kantianamente – un qualcosa che, misteriosamente, orienta le scelte umane senza essere mai compiutamente realizzata. Il che attesta la dignità dell’uomo. L’intenzionalità propria dell’agire morale può dunque essere attribuita in senso stretto solo agli esseri umani perché solo gli esseri umani hanno la caratteristica distintiva di mettere in discussione i criteri e i principi secondo cui elaborano le decisioni, in quanto capaci di riflessione critica e di processi decisionali eticamente qualificati. È poi proprio nell’ambito dell’etica che si rivela la differenza più evidente fra uomo e macchina. Di fronte al dilemma etico – che si impone ogni qual volta si deve assumere una decisione che per definizione comporta la perdita della opzione sacrificata – la macchina rivela infatti tutta la sua impotenza. Confermano questa conclusione due esempi significativi, il primo dei quali lo desumiamo da un mondo che ci è appartenuto per cinquanta anni. Mai a nessun giudice verrebbe in mente di affidare la concessione della libertà vigilata ad un algoritmo perché codesta decisione, implicando una previsione sulla possibile recidiva, richiede acume, memoria storica, calcolo delle possibilità. A tutto concedere, la conoscenza esperienziale fornita dalla macchina può offrire al giudice preziose indicazioni e fondamento meno volubile alla propria decisione. Il che può, a rigore, ripetersi puntualmente anche per la stessa decisione contenuta nell’atto terminale del processo che dicesi “sentenza”, ossia, propriamente “parere” di chi è chiamato a giudicare. In nessun caso, però, anche la macchina più sofisticata che si possa immaginare può sostituirsi a chi ha l’onore e l’onere del giudizio. Il secondo esempio lo desumiamo dalla stretta attualità, alla quale vogliamo restare ancorati per rimarcare l’eterno ripetersi del dilemma etico. Fino a quando, a scapito della economia, dovrà privilegiarsi la vita dei cittadini sul presupposto che la vita non ha prezzo? In altri termini: quanto futuro, quante prospettive per le prossime generazioni si sarà disposti a sacrificare pur di salvare vite umane? O, almeno a un certo punto, si dovranno sacrificare vite umane nell’interesse di salvaguardare l’economia di un Paese? Di fronte a questa y pitagorica non può essere la macchina a decidere perché, ad altrimenti sentenziare, si finirebbe per perdere la stessa umanità di chi è chiamato a deliberare. Se dai singoli esempi eleviamo ora il piano a quello generale, è lecito conclusivamente affermare che non si può affidare la scelta all’algoritmo ogni qual volta ci si trovi in presenza di un dilemma perché le macchine non hanno una morale. Né avvertono la responsabilità della scelta e il dolore della colpa conseguente al sacrificio che comporta l’opzione prescelta, spesso terribile. Dove il pensiero rinvia a La scelta di Sophie che si conclude con il suo suicidio, sbocco fatale del dolore conseguente all’abbandono del figlio destinato alla camera a gas dalla sadica guardia nazista: dolore che la madre si è portata dietro per tutti gli anni a venire di fronte al dilemma di quale dei due figli da sacrificare. La macchina posta in questa incertezza resterà forse inerte, ma non si sentirà mai in colpa a seguito della scelta operata. Al contrario di Sophie annientatasi nel baratro. Bisogna insomma smentire il pregiudizio diffuso e comune che una mente fredda e priva di emozioni versi nelle condizioni ottimali per assumere decisioni saggie. In realtà è esattamente il contrario perché la scelta implica processi decisionali, ai quali non sono estranei altri elementi, fra i quali, prevalenti, l’emozione e la morale, iscritta nella coscienza dell’uomo come una grammatica universale. Per concludere. Filosofia e letteratura hanno lungamente esplorato il fenomeno della innovazione puntualizzando il fatto che ogni innovazione, mentre dispiega nuove possibilità, nel contempo propone interrogativi antichi. Tra essi il richiamo ai temi della coscienza e della responsabilità, questioni che interpellano ogni epoca e società, che non possono assolutamente essere disattese. L’intelligenza artificiale può aiutare a risolvere i problemi, può suggerire soluzioni, ma non può mai diventare l’ultima istanza. La decisione da porre in atto deve rimanere, in ultima analisi, sempre e soltanto nelle mani di dell’homo sapiens, per nulla modificato da quella tecnica che, grazie all’impianto di accessori, ne potenziano le prestazioni, gli danno l’illusione di una capacità potenzialmente illimitata. In un futuro nel quale un numero sempre più grande di opzioni e attività del vivere comune sarà affidato ai complessi mirabili ritrovati dalla tecnica che li compiranno in modo molto più veloce ed efficiente degli esseri umani il vero-grande rischio è la trasformazione dell’uomo da soggetto a oggetto della tecnica. L’uomo e la macchina, per quanto destinati ad avvicinarsi sempre più, non possono fondersi in un ibrido. L’uomo deve restare uomo. Per questo occorre avversare, con ferma determinazione, quanti, auspicando la radicale definizione dello statuto umano, identificano quella presente come “l’era del cyborg”, un trans-umanesimo o post-umanesimo che, in quanto massoni, non ci piace perché l’uomo deve restare ciò che è sempre stato, unione di corpo e anima, essere razionale, creatura senziente, perennemente a metà del guado fra bene e male, sua eterna dignità, sua stessa ragione d’esistere. Anche se questa rivendicata identità comporta poi, all’evidenza, l’osservanza di livelli crescenti di responsabilità e dunque il coinvolgimento di diverse discipline considerata la pervasività e la diffusione del fenomeno digitale in quasi tutti gli ambiti della nostra vita.