Al modo della melagrana
di Leo Toscanelli
Tra le acquisizioni definitive dell’appartenenza ad una comunione iniziatica c’è, ci deve essere, la capacità di estrarre ricchezza dal silenzio e dalla meditazione individuale. Il silenzio, infatti, specialmente nei tempi tristi, e noi ne stiamo vivendo uno di cui non riusciamo ancora a cogliere tutta la gravità e le conseguenze che avrà su tutti noi, è la ‘notte’ che porta la luce della comprensione e della valutazione ponderata delle cose. La notte è il tempo della Tornata permanente in cui l’iniziato ritrova ogni fratello perché ‘ricompone’ sé stesso (come simboleggia la melagrana). Dopo giorni di riflessione, ho pensato dunque di condividere con Voi una Tornata assai particolare che dovrà svolgersi in luoghi diversi (dove ora siete), in un tempo frammentato (l’ora in cui leggete), ma spero in unità d’intenti e col proposito di tenere accesa la fiamma che ci permette di leggere in silenzio e che ci consola. Ci sono tempi delle vicende umane che mostrano caratteristiche inattese e sconcertanti e richiedono di essere fronteggiati con risorse mentali e modalità di comportamento d’eccezione. Inatteso e sconcertante è l’evento che ci coinvolge. Sulle ragioni remote che l’hanno provocato non ci soffermeremo. Donne e uomini di scienza lo stanno facendo e le loro considerazioni non sono consolanti: l’aggressione avida, pervicace, sfrontatamente rivendicata da alcuni governi, agli habitat, per tutti preziosi, della Terra, sono senz’altro tra le cause cosiddette remote di quel che viviamo con angoscia che cresce. A maggior ragione non parleremo delle cause prossime che richiedono competenze specifiche, ricerche laboriose e specialistiche e non opinioni in libertà e pareri non richiesti. Parleremo di noi, di che cosa possiamo attingere e condividere dal patrimonio di valori che ci caratterizzano e dall’orientamento di vita che abbiamo deciso di avere in comune. Di fronte alla nostra umanità riscoperta, ancora una volta e dopo rinnovate illusioni collettive di onnipotenza, insidiata e precaria, di fronte a questo mondo animale e vegetale di cui acceleriamo, quando direttamente non causiamo, la distruzione, noi dobbiamo capire a fondo il senso di uno dei nostri valori fondamentali: la fratellanza. Non in modo soltanto sentimentale – anche se sentire in sé la sofferenza comune non è certo vuoto ‘sentimentalismo’ –, né in modo predicatorio, ma nel modo che ci lega di fatto agli altri e che ci contraddistingue come viventi per loro stessa costituzione relazionali. Sul dato di fatto che noi non possiamo vivere senza gli altri si leva la possibilità di vivere con gli altri e, infine, di vivere anche per gli altri. Sono tre livelli diversi di consapevolezza e di compimento del potenziale di umanità che è in noi. Che non si possa vivere senza gli altri è il riconoscimento di un bisogno costitutivo. Non c’è necessità di illustrare questo punto perché ha una sua evidenza. L’ulteriore passo, vivere con gli altri, fa degli umani i viventi capaci di allargata e complessa socialità che hanno originato ed elaborato quelle particolari condizioni di esistenza che sono le civiltà dove il diritto regola la vita, le attività conoscitive si protendono verso ciò che c’è per comprendere come è e perché è, le convenzioni sociali gli usi e i costumi rendono peculiari e caratteristici i modi del vivere, le tecniche mediche cercano di tutelare le vite individuali e le religioni si offrono a dare l’orizzonte di senso e i valori supremi della vita. A questo stadio di sviluppo si è con gli altri non soltanto per paura e bisogno, ma per intevenuta convinzione che la relazionalità accresce e continuamente innova l’orizzonte della vita umana. È questo lo stadio di riflessione cui si fermano i più dei viventi umani e di cui nel corso della nostra formazione culturale veniamo a conoscenza per poter vivere in società in modo da essere magari anche critici e innovativi. Si hanno però tracce e testimonianze sicure che alcuni uomini hanno avvistato, già in epoca molto antica, anche un altro modo di stare al mondo e di condividerlo. Lo indicherei come la comprensione radicale e permanente (non episodica, dunque) del comune destino umano e del sentirsi della stessa pasta di cui tutti siamo fatti. A questo stadio di comprensione della realtà, e dei modi di abitarla, quel che ne consegue è vivere anche per altri dove quel ‘per’ ha due significati. Primo significato: gli altri sono sempre anche dei fini in sé e non possiamo trattarli soltanto come mezzi, che è una massima fondamentale della morale kantiana. Secondo significato (che coinvolge le emozioni oltre che il ragionamento): gli altri sono io e io vivo anche nelle loro vite. Quei dolori quelle gioie quelle ingiustizie subite quei torti fatti quella benevolenza quella ostilità…sorgono in esseri che sono fatti come me, che sono me…. Pensieri simili, che, non soltanto passano per la testa, ma che vi si fermano e discendono nelle nostre viscere, cambiano progressivamente e in profondità la prospettiva e l’atteggiamento del nostro stare al mondo. Vivere nella luce della fratellanza, illuminati e pervasi dalla consapevolezza della comune appartenenza, del comune ‘impasto’, è il risultato di un’apertura dei margini dell’io (necessari alla vita quotidiana), un movimento inclusivo che genera valori nuovi e non scorgibili da chi è coinvolto soltanto nella prospettiva dei propri vantaggi, del proprio interesse, nella difesa di ciò che è prossimo a ognuno e che consideriamo ‘nostro’. È testimoniato che le iniziazioni ai misteri antichi avessero per fine di far entrare in questa ‘luce’ e di far “vivere questa emozione”. Quei ‘misteri’ non hanno potuto cambiare i rapporti sociali, ma hanno dato ad alcuni uomini la ferma convinzione che tali rapporti non fossero che maschere da lasciar cadere per una comprensione più profonda della vita. In Eleusis, un componimento che il filosofo Hegel inviò all’amico e poeta Hölderlin nell’agosto del 1796, si dice di voler “vivere solo per la verità/ libera e mai far pace con la norma,/ che su opinioni e sentimenti impera”. Qui, in questo momento alto e bello della sua giovinezza, Hegel coglie appieno il senso dell’ultima parte del nostro discorso: lo sguardo dell’iniziato oltrepassa le convenzioni sociali e le credenze temporali (e dunque temporanee) degli uomini, mira invece a quel comune essere al modo e alla comprensione dei vincoli profondi che l’uno all’altro ci legano. Il significato più vero della terza luce del tempio (secondo un’interpretazione che per il nostro contesto possiamo accogliere), la fratellanza, non è certo quello superficiale e sentimentale, che non si renderebbe conto dei contrasti e delle lotte che gli uomini hanno dovuto e sempre dovranno ingaggiare e sostenere per far valere quello che credono giusto, significato criticato da Benedetto Croce, e non solo, come esempio di una delle ‘vuote’ parole della massoneria. In effetti, il significato di fratellanza è meno evidente di quello di libertà e d’uguaglianza. Richiede, per essere compreso, uno sforzo maggiore di penetrazione nelle molte pieghe della nostra esistenza, più elaborazione, in sintesi: un grado più alto della progressione iniziatica. Si potrebbe dire che ne sia il culmine. Spesso ripetiamo l’evangelico “fai agli altri tutto quello che vorresti fosse fatto a te, e non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Diamo, in linea di principio, una grande importanza a queste parole e le ripetiamo con convinzione. Ma, queste parole acquistano il loro vero senso soltanto in forza di un completamento esoterico, altrimenti potrebbero suonare vaghe e incoerenti: gli altri, infatti (si dice), potrebbero avere gusti diversi dai tuoi! Non offenda l’ironia del profano perché coglie nel segno o, meglio, coglierebbe nel segno se quel principio (la così detta “regola aurea”) non fosse inteso nel contesto su cui stiamo riflettendo. Noi, infatti, lo intendiamo non in ragione di gusti e orientamenti diversi (che siamo tenuti a rispettare, eventualmente), ma in ragione di quella comune ‘stoffa’ di cui tutti siamo tessuti. A noi quel principio suona così: attingi il più profondo livello di umanità dove dolore e sofferenza, gioia e letizia, bene e male, vittoria e sconfitta sanciscono un comune appartenere e non ledere, finché ti è possibile, i legami che ci fanno ‘fratelli’ (simboleggiati dalla melagrana). È a quella comune stoffa, a quel comune appartenere che dobbiamo tenere lo sguardo: dolore, sofferenza, gioia, rabbia, scoramento, entusiasmo… sono la pasta comune di cui tutti siamo fatti, certo le generano cose diverse, non le stesse cose, non quelle che le generano per me (o, meglio, talvolta sì, altre volte no), ma altre ad altri e per altri. Qui è il significato profondo della ‘fratellanza’ come valore iniziatico, e non soltanto emotivo, nell’impegnarsi a leggere quali siano, nella situazione specifica, i gesti le parole le azioni che fortificano o ledono l’intreccio meno visibile ma più vero e profondo della comune umanità. Occorre un orecchio attento e volenteroso alle possibili consonanze e dissonanze. L’armonia è sempre questione di spirito di finezza e di invenzione ogni volta delle relazioni, non di norme prestabilite per ogni occasione. Spendere parole sull’ora triste che incombe su di noi sarebbe da parte mia non vano ma stupido esercizio di retorica, piuttosto ognuno veda come meglio possa servire al valore della Fratellanza e della comune appartenenza alla società e faccia tesoro della “virtù donante” che è la virtù del dare non soltanto beni e ciò di cui altri potrebbe aver bisogno, ma anche del mettere al sevizio di tutti quelle caratteristiche personali di ognuno che si chiamano, per antica consuetudine, talenti e che ora, meno che mai, possono essere nascosti.